La malattia o demenza di Alzheimer, che prende nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che ne descrisse i sintomi nel 1907 per la prima volta, colpisce circa il 5% della popolazione sopra i 60 anni e si manifesta inizialmente con una progressiva amnesia, prima sulle piccole cose, fino ad arrivare a non riconoscere nemmeno i familiari e ad avere bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici. L’Alzheimer è uno stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali, che comporta una serie di difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività, in quanto colpisce sia la memoria che le funzioni cognitive, e questi si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare. Inoltre può essere causa di stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. Il codice di esenzione della malattia di Alzheimer è 029 (Malattie croniche).
Basta diminuire il sodio consumato per ridurre il rischio anche di malattie cardiovascolari
Che gli eccessi nell’alimentazione facciano poco bene alla salute è cosa nota e questo vale anche per l’utilizzo del sale. Dopo la notizia, proveniente del CNR di Pisa, che una riduzione moderata di calorie aiuta a mantenere la plasticità del cervello ecco un nuovo studio che rimarca il ruolo dell’alimentazione nell’insorgenza dell’Alzheimer. Stando a quanto riportato su uno studio appena pubblicato sul Journal Neurobiology of Aging, infatti, gli anziani che hanno l'abitudine di condire con molto sale ogni piatto possono ritrovarsi, in futuro, con problemi al cervello e al cuore. Questi sarebbero vittime di un declino mentale più rapido rispetto ai coetanei che hanno diminuito le dosi durante i pasti.
Il composto è in studio anche per altre malattie neurologiche ed interessa anche l'esercito americano come antidoto per alcune sostanze utilizzate nella guerra chimica
Tra le terapie utilizzate attualmente per i malati di Alzheimer negli Usa ne esiste una basata sull’utilizzo di un integratore alimentare chiamato Huperzine A. Questa sostanza agisce come inibitore enzimatico e, in base a vari trial clinici condotti in America sembra avere effetti benefici. L’Huperzine A fino ad ora ha però patito un limite piuttosto grave, quello di essere estratto da un muschio cinese– l’Huperzia – raro e attualmente a rischio scomparsa. Questo ha frenato molto la ricerca e le sperimentazioni, basti pensare che l’Huperzine A può costare fino a 1.000 dollari al milligrammo. In più, se la pianta si fosse estinta, non ci sarebbe fino ad oggi stato alcun modo di proseguire le ricerche. Sembra però che il problema sia stato superato grazie all’impegno dei ricercatori dell’Università di Yale che sono riusciti a sintetizzare la molecola in laboratorio, il che permetterà di produrne nella quantità voluta e anche quando eventualmente il muschio non dovesse più esistere in natura. In passato c’erano stati tentativi di riprodurre la sostanza in laboratorio ma il processo di sintesi si era rivelato particolarmente complesso: il nuovo metodo messo a punto a Yale, invece, richiede solo otto passaggi e produce una resa del 40 per cento, contro una di appena il 2 per cento del complicato procedimento tentato in precedenza.
Nel frattempo però l’assistenza è fondamentale, un aiuto si può dare sostenendo l’associazione Alzheimer Uniti con un sms al numero 45505
A fine luglio avevamo dato notizia che uno studio aveva identificato un possibile biomarcatore precocissimo per una rara forma di Alzheimer. Ora da uno studio americano pubblicato su Neurology arriva la speranza di poter scorgere la malattia, anche nella sua forma più comune, prima che questa manifesti i sintomi. La ricerca è firmata da un gruppo di scienziati della Mayo Clinic. Il test che qui viene presentato si basa su una evoluta tecnica di imaging (la diagnostica per immagini) chiamata spettroscopia protonica con risonanza magnetica. La tecnica è stata utilizzata su 311 anziani fra i 70 e gli 80 anni senza particolari problemi cognitivi, selezionati tra quanti avevano partecipato a precedenti studi sull’invecchiamento condotti dalla clinica. Utilizzando questa tecnica i ricercatori hanno cercato di capire se nel cervello di questi soggetti si potessero evidenziare anomalie in diversi metaboliti che potessero essere utilizzati poi come marker predittivi per lo sviluppo dell’Alzheimer, una delle malattie che oggi preoccupa di più per la sua diffusione che è in aumento con l’aumentare dell’età media della popolazione e che crea grossi problemi gestionali all’interno delle famiglie, spesso costrette ad affidarsi a ‘badanti’ o comunque aiuti esterni per gestire il malato.
Grazie all’ sms solidale autorizzato dal Segretariato sociale della Rai l'associazone Alzheimer uniti onlus realizzerà un progetto di formazione di volontari per l’assistenza domiciliare.
L’Alzheimer è una malattia cronica progressivamente invalidante, che tocca in Italia almeno 700 mila persone; ad occuparsi di loro la maggior parte delle volte sono le famiglie che li assistono a domicilio. E’ importante che accanto ai servizi socio-sanitari, spesso insufficienti, vi siano altri aiuti esterni, che debbono però essere qualificati per incidere realmente sulla qualità di vita di tutto il nucleo familiare. L’Associazione Alzheimer Uniti ha in progetto di realizzare corsi di formazione per volontari, da inviare presso le famiglie in base all’esperienza acquisita e alle reali necessità. Il progetto si chiama ‘Molto si può fare’. Per sostenerlo basta inviare un SMS al numero 45505 dal 22 al 28 agosto. L’SMS ha un valore di due euro e può essere inviato dai cellulari Tim, Vodafone, Wind, 3, Poste Mobile e CoopVoce o da rete fissa attraverso i gestori Telecom Italia, Infostrada, Fastweb e TeleTu.
Lo studio americano del prof. Bateman si è concentrato su una forma molto rara della malattia
Esiste una forma di Alzheimer ereditaria molto rara che colpisce generalmente in età precoce rispetto alla media. Si tratta di una forma di malattia nasce da una mutazione genetica che garantisce che una persona svilupperà la malattia, anche se solo un genitore la trasmette. Nella stragrande maggioranza dei casi di Alzheimer, tuttavia, la malattia insorge attraverso una complessa interazione di fattori genetici e ambientali che rimane ancora poco chiara. Su questi pazienti si è concentrato lo studio del prof. Randall Bateman, docente della Washington University School of Medicine al fine di trovare dei biomarcatori in grado di rilevare con anticipo l’esordio della malattia. I risultati dello studio, appena presentati alla Alzheimer Association International Conference di Parigi sembrano promettenti. Sembrerebbe infatti che misurando alcuni specifici cambiamenti chimici nel cervello si possano cogliere i segnali della malattia addirittura 20 anni prima della comparsa dei primi sintomi di questa malattia neurodegenerativa.
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