Il codice di esenzione della sclerosi multipla è 046 (Malattie croniche).

Si è svolto a Praga la scorsa settimana il Meeting europeo dell’Unione Internazionale di Flebologia (UIP).In questa occasione un gruppo di ricerca guidato dal Dr Grozdinski e dal Dr Petrov dell'Ospedale Tokuda di Sofia ha presentato i primi risultati di un interessante studio che ha confermato la correlazione tra la sclerosi multipla (SM) e l'insufficienza venosa cronica cerebro spinale (CCSVI) ipotizzata dall'italiano prof. Paolo Zamboni, Direttore del Centro Malattie Vascolari dell'Università di Ferrara.

Si è tenuto dal 10 al 14 settembre in Germania a Monaco di Baviera il Congresso CIRSE 2011 della Società Europea di Radiologia Interventistica e Cardiovascolare (CIRSE). Uno dei temi caldi in discussione ovviamente riguardava la CCSVI nella Sclerosi Multipla scoperta dal prof. Paolo Zamboni, Direttore del Centro Malattie Vascolari dell’Università di Ferrara ed era intitolato "La CCSVI esiste? Dovremmo trattare con l'angioplastica i malati di sclerosi multipla e con la CCSVI?" con moderatori il prof. Dierk Vorwerk della Clinica di Ingolstadt (Germania) e il prof. Jan Peregrin dell'Università Masaryk di Brno (Repubblica Ceca). Su questo argomento attualissimo si è acceso un ampio dibattito tra tesi contrapposte che ha interessato molto la platea in una sala davvero affollata.

La ricerca sulla possibile correlazione tra la Sclerosi Multipla e l’insufficienza venosa cronica cerebro spinale (CCSVI) è ormai terreno di applicazione in moltissimi paesi e ormai le pubblicazioni si susseguono una all’altra velocemente. Una delle ultime in ordine di tempo risale solo all’8 settembre scorso è firmata da un gruppo di ricercatori serbi dell’Università di Belgrado, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Phlebology e riguarda le ‘Anomalie morfologiche ed emodinamiche nelle vene giugulari dei pazienti con sclerosi multipla’.

Le conclusioni sono nette: “La sclerosi multipla progressiva non è associata ad insufficienza venosa cronica cerebrospinale”. Ad affermarlo è uno studio tutto italiano pubblicato ad Agosto sulla prestigiosa rivista scientifica Neurology e condotto da ricercatori italiani della Prima Clinica Neurologica e del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Universitario di Padova e del Centro Sclerosi Multipla della Regione Veneto. Si aggiunge dunque un nuovo tassello nell’accesa polemica tra i sostenitori di quello che ormai viene chiamato ‘metodo Zamboni’ e gli scettici.

La ricerca e le sperimentazioni sulla Sclerosi Multipla non si fermano e ora approdano anche al trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche, quello che a volte viene chiamato anche trapianto di midollo e che tutt’oggi viene utilizzato per molte malattie rare – dalla mucopolisaccaridosi di tipo 1 alla più diffusa talassemia o anemia mediterranea fino a vari tipi di leucemie e tumori. A tentare in via sperimentale questa strada è stata recentemente l’equipe dell’Unità di trapianto di midollo osseo dell'Azienda ospedaliera Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello, diretta dalla dottoressa Rosanna Scimè, e dai medici della Neuroimmunologia dell’Azienda coordinati da Salvo Cottone. Le cellule staminali del sangue utilizzate in questo caso hanno una particolarità: non sono state prese dalle banche del midollo o del cordone ombelicale, ricorrendo dunque a donatori esterni, ma sono stare prevelevate direttamente dal sangue del paziente, in questo caso un giovane palermitano di 24 anni che nei giorni scorsi, dopo l’infusione, è potuto tornare a casa. Proprio per questa particolarità si parla di trapiantgo autologo, cioè dalla persone stessa.

Dagli Usa e dalla Polonia alcuni studi sostengono Zamboni, ma l’attesa maggiore è per i risultati di Brave Dreams, il trial multicentrico che prevede l’arruolamento di 600 pazienti

La domanda ormai tiene banco da tempo: la CCSVI - Insufficienza venosa cronica cerebrospinale è o non è correlata alla Sclerosi Multipla? In parole povere, andando a rimuovere chirurgicamente questa insufficienza venosa si ‘cura’ la malattia o si hanno almeno risultati migliori di quelli dati fino ad oggi dai farmaci? E quale è il procedimento giusto da seguire per ridurre al minimo i possibili effetti collaterale di quello che è pur sempre un intervento chirurgico? Stiamo parlando chiaramente del dibattito sul ‘Metodo Zamboni’ così chiamato dal nome del prof. Paolo Zamboni di Ferrara che per primo ha teorizzato questo legame e proposto di intervenire nei pazienti con il metodo dell’angioplasica dilatativa (PTA), che andrebbe naturalmente fatto secondo precisi criteri e metodi che Zamboni ha sempre sottolineato. Sulle risposte pazienti e medici si dividono, c’è chi ne sostiene la fondatezza e invoca che siano avviate più sperimentazioni anche in Italia, chi rimane dubbioso e chi invece si oppone. Il dibattito coinvolge anche i ricercatori di tutto il mondo, e lo si vede chiaramente dal fiorire di studi volti a provare o confutare questa correlazione, a mettere in luce eventuali benefici così come gli effetti collaterali, quasi una guerra a colpi di studi e non possa settimana senza che ce ne sia uno nuovo o senza che arrivi la notizia di un qualche trial clinico pronto a partire.

Buona parte dei problemi sono legati all’uso dello stent, che Zamboni ha sempre sconsigliato

Non sono pochi, anche se è difficile quantificarli, i malati di sclerosi multipla che non trovando l’opportunità di sottoporsi nei propri paesi a protocolli di sperimentazione dell’angioplasica, l’intervento che viene comunemente chiamato ‘metodo Zamboni’, decidono - anche contro il parere del proprio medico - di andare a sottoporsi all’estero a questa procedura invasiva. Si tratta di una questione ben nota, ad esempio in Canada, e che sta creando delle preoccupazioni. Non molto tempo fa un uomo canadese ha dichiarato, ad esempio, che la propria moglie, dopo essersi sottoposta all’estero a questo procedimento, era deceduta per delle complicazioni.
Sulla questione l’attenzione medica è alta e così l'Università di Calgary ha deciso di fare uno studio seguendo il follow up di alcuni pazienti che erano andati a sottoporsi all’angioplasica all’estero. Si tratta di uno studio numericamente limitato – i pazienti seguiti sono stati solo 5 – ma i risultati sembrano essere un po’ allarmanti. Questa ricerca, recentemente pubblicata sul Canadian Journal of Neurological Sciences documenta, infatti, numerose complicazioni nei pazienti che si sono recati all’estero per il cosiddetto trattamento di liberazione. Tra i problemi più frequenti riportati ci sono la trombosi dopo l’inserimento dello stent (una struttura metallica cilindrica a maglie che una volta inserita viene fatta espandere allargando così la vena bloccata), trombosi venosa cerebrale, dislocamento dello stent, lesione al nervo cerebrale, lesione dovuta alla venografia con catetere.


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