La malattia o demenza di Alzheimer, che prende nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che ne descrisse i sintomi nel 1907 per la prima volta, colpisce circa il 5% della popolazione sopra i 60 anni e si manifesta inizialmente con una progressiva amnesia, prima sulle piccole cose, fino ad arrivare a non riconoscere nemmeno i familiari e ad avere bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici. L’Alzheimer è uno stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali, che comporta una serie di difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività, in quanto colpisce sia la memoria che le funzioni cognitive, e questi si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare. Inoltre può essere causa di stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.
Il codice di esenzione della malattia di Alzheimer è 029 (Malattie croniche).

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Il risultato scientifico reso noto nel corso della Prolusione su “Active Aging” tenuta dal Fisiologo Grassi in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno accademico dell’Università Cattolica presso la sede di Roma

Scoperto da ricercatori italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” di Roma il meccanismo con cui le proteine tossiche, che si accumulano nel cervello dei malati di Alzheimer fanno danni dall'interno delle cellule nervose, alterando le sinapsi e la trasmissione del segnale nervoso.
Se a queste proteine viene impedito di entrare nel neurone, diventano innocue, ovvero dall’esterno della cellula sono incapaci di danneggiarla.
Sono i risultati importanti di una delle linee di ricerca condotte del team di Claudio Grassi, professore Ordinario di Fisiologia all’Università Cattolica di Roma, che ha tratteggiato i progetti in corso nel suo Istituto in partnership con altri centri di ricerca di fama mondiale.

Un enzima "scudo" chiamato Adam 10 potrebbe proteggere i neuroni dall'accumulo di proteina beta-amiloide, la sostanza che soffoca le cellule del sistema nervoso dei malati di Alzheimer. La scoperta, discussa a Torino durante il 36esimo Congresso nazionale della Società italiana di farmacologia (23-26 ottobre, Centro congressi del Lingotto), porta la firma di Monica Di Luca e colleghi del Dipartimento di scienze farmacologiche e biomolecolari dell'università degli Studi di Milano. Il lavoro è pubblicato sul Journal of Clinical Investigation, e apre alla ricerca di un metodo farmacologico che possa "incatenare" Adam 10 alla membrana cellulare, mantenendolo al suo posto e prolungandone l'attività.

Arriva un test clinico che sembra in grado di identificare il rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer, nei pazienti che non hanno ancora manifestato i sintomi della malattia. Il test è frutto degli studi dei ricercatori dell'Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca (AFaR) guidati da Rosanna Squitti.
E' più di un decennio che, anche nel nostro Paese, ci si interroga e si fa ricerca sul ruolo del rame nello sviluppo della malattia di Alzheimer ed è stato dimostrato che esiste una relazione tra la demenza tipica di questa patologia e i livelli di rame “libero” presente nel sangue, ossia quella concentrazione di rame circolante nel flusso sanguigno non legato alla proteina che normalmente lo trasporta, chiamata ceruloplasmina.

Francia e Italia hanno unito le forze per creare un laboratorio internazionale dedicato allo studio delle malattie neurodegenerative. L'Università di Lille 1, il CNRS, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), l’Università Sapienza di Roma e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli (IS) hanno infatti siglato l’accordo per la creazione del Laboratorio Internazionale Associato (LIA) "Stress Prenatale e Malattie Neurodegenerative".

La Federazione Alzheimer Italia, rappresentate per l’Italia di ADI (Alzheimer’s Disease International), anche per il 2013 in occasione della Giornata Mondiale Alzheimer- giunta quest’anno alla ventesima edizione - ha avuto il compito di presentare al nostro Paese il nuovo Rapporto Mondiale Alzheimer 2013, intitolato “Alzheimer: un viaggio per prendersi cura” e dedicato a come affrontare dopo la diagnosi il lungo percorso della malattia.

I metalli tenderebbero ad accumularsi nel cervello, danneggiando i neuroni

USA – La relazione tra l’insorgenza dell’Alzheimer e l’accumulo dei metalli nel cervello potrebbe essere più che una mera ipotesi. Dopo l’accusa nei confronti del rame, di cui vi abbiamo parlato la settimana scorsa, ora i riflettori sono puntati sul ferro.
Anche il ferro è un metallo naturalmente presente in molti cibi ed è necessario per la corretta produzione dell’emoglobina e di altri enzimi e proteine. Secondo lo studio condotto dai ricercatori dell'Università di Los Angeles (UCLA) sembra però che le regioni neurali danneggiate dei pazienti affetti da Alzheimer siano sovraccariche di questo metallo.

Secondo un recente studio statunitense, pubblicato su Proceedings of National Academy of Sciences, l’accumulo di rame ne sangue potrebbe favorire l’insorgenza e la progressione dell’Alzheimer.
Lo studio, condotto presso l’Università di Rochester, ha analizzato il potenziale ruolo nocivo del rame sia su cellule cerebrali umane che sul modello murino. Ad essere pericoloso è l’accumulo del metallo nel tempo, che a lungo andare può compromettere la produzione del peptide beta-amiloide, responsabile della malattia.

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