La malattia o demenza di Alzheimer, che prende nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che ne descrisse i sintomi nel 1907 per la prima volta, colpisce circa il 5% della popolazione sopra i 60 anni e si manifesta inizialmente con una progressiva amnesia, prima sulle piccole cose, fino ad arrivare a non riconoscere nemmeno i familiari e ad avere bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici. L’Alzheimer è uno stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali, che comporta una serie di difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività, in quanto colpisce sia la memoria che le funzioni cognitive, e questi si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare. Inoltre può essere causa di stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.
Il codice di esenzione della malattia di Alzheimer è 029 (Malattie croniche).

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Francia e Italia hanno unito le forze per creare un laboratorio internazionale dedicato allo studio delle malattie neurodegenerative. L'Università di Lille 1, il CNRS, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), l’Università Sapienza di Roma e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli (IS) hanno infatti siglato l’accordo per la creazione del Laboratorio Internazionale Associato (LIA) "Stress Prenatale e Malattie Neurodegenerative".

La Federazione Alzheimer Italia, rappresentate per l’Italia di ADI (Alzheimer’s Disease International), anche per il 2013 in occasione della Giornata Mondiale Alzheimer- giunta quest’anno alla ventesima edizione - ha avuto il compito di presentare al nostro Paese il nuovo Rapporto Mondiale Alzheimer 2013, intitolato “Alzheimer: un viaggio per prendersi cura” e dedicato a come affrontare dopo la diagnosi il lungo percorso della malattia.

I metalli tenderebbero ad accumularsi nel cervello, danneggiando i neuroni

USA – La relazione tra l’insorgenza dell’Alzheimer e l’accumulo dei metalli nel cervello potrebbe essere più che una mera ipotesi. Dopo l’accusa nei confronti del rame, di cui vi abbiamo parlato la settimana scorsa, ora i riflettori sono puntati sul ferro.
Anche il ferro è un metallo naturalmente presente in molti cibi ed è necessario per la corretta produzione dell’emoglobina e di altri enzimi e proteine. Secondo lo studio condotto dai ricercatori dell'Università di Los Angeles (UCLA) sembra però che le regioni neurali danneggiate dei pazienti affetti da Alzheimer siano sovraccariche di questo metallo.

Secondo un recente studio statunitense, pubblicato su Proceedings of National Academy of Sciences, l’accumulo di rame ne sangue potrebbe favorire l’insorgenza e la progressione dell’Alzheimer.
Lo studio, condotto presso l’Università di Rochester, ha analizzato il potenziale ruolo nocivo del rame sia su cellule cerebrali umane che sul modello murino. Ad essere pericoloso è l’accumulo del metallo nel tempo, che a lungo andare può compromettere la produzione del peptide beta-amiloide, responsabile della malattia.

Da anni si cerca un metodo di diagnosi precoce. Ma qual è il senso di questa possibilità?

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Genome Biology propone la possibilità di un nuovo test per la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer. Si tratta di un test del sangue, semplice e veloce, che consentirebbe di individuare i primi segni della malattia e l'avanzare delle placche di beta-amiloide, la proteina tossica che soffoca i neuroni e fa progredire la malattia.

Un recente studio islandese sembra aver individuato una variante genetica rara in grado di fornire indizi per lo sviluppo di nuovi farmaci e per l’individuazione di specifici bersagli terapeutici, utili nella terapia dell’Alzheimer.
La ricerca, condotta su 2.600 anziani islandesi dai ricercatori della DeCode Genetics di Reykjavik, ha stabilito per mezzo di sequenziamento genico che circa lo 0,45% della popolazione dell’Islanda presenta una mutazione (A673T) nel gene che codifica per la proteina precursore del beta-amiloide (APP).

E’ approvato solo per il trattamento di patologie oncologiche. Si raccomanda grande attenzione all’uso ‘off-label’

USA - Risultati deludenti per il farmaco bexarotene, sperimentato sul modello murino della malattia di Alzheimer. A sostenerlo sono un gruppo di ricercatori statunitensi, che hanno pubblicato su Science i propri commenti tecnici a circa un anno di distanza dai risultati delle prime sperimentazioni.
Secondo il rapporto del 2012 il farmaco sembrava in grado di invertire l’accumulo di placche beta amiloidi, una delle caratteristiche principali della malattia, nel cervello dei topi affetti dal male. Sembrava che il farmaco potesse comportare anche una rapida inversione dei deficit cognitivi, ma i nuovi studi non lo confermano.

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