La malattia o demenza di Alzheimer, che prende nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che ne descrisse i sintomi nel 1907 per la prima volta, colpisce circa il 5% della popolazione sopra i 60 anni e si manifesta inizialmente con una progressiva amnesia, prima sulle piccole cose, fino ad arrivare a non riconoscere nemmeno i familiari e ad avere bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici. L’Alzheimer è uno stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali, che comporta una serie di difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività, in quanto colpisce sia la memoria che le funzioni cognitive, e questi si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare. Inoltre può essere causa di stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.
Il codice di esenzione della malattia di Alzheimer è 029 (Malattie croniche).

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In uno studio di fase IIb, il farmaco sperimentale RVT-101 ha dimostrato di migliorare significativamente le capacità cognitive e funzionali in pazienti con Alzheimer da lieve a moderato.

Due recenti studi aprono nuove prospettive per una patologia in costante aumento

Trentasei milioni di pazienti nel mondo, destinati a triplicare entro il 2050; mezzo milione solo in Italia: la malattia di Alzheimer è in aumento e ha una pesante ricaduta anche sul piano socioeconomico. Dato che l’incidenza aumenta progressivamente con l’età, oltre gli ottant’anni una persona su cinque ne è affetta, e ancora non esiste un trattamento capace di far regredire i sintomi o arrestarne la progressione. Per i ricercatori, dunque, sconfiggere la malattia costituisce una sfida impegnativa, e negli ultimi mesi sono stati pubblicati due studi scientifici che hanno fatto fare un passo avanti alla ricerca per questa terribile patologia e per gli altri tipi di demenza.

Secondo gli esperti, l’approccio farmacologico dovrebbe essere limitato a casi specifici

I medici prescrivono ogni anno milioni di farmaci per sedare il comportamento delle persone con malattia di Alzheimer e altre forme di demenza. Ma gli approcci non farmacologici, in realtà, funzionano meglio, e sono meno rischiosi.
Come sostengono i ricercatori in uno studio appena pubblicato sul British Medical Journal, questo approccio dovrebbe essere la prima scelta per il trattamento dei sintomi comuni nei pazienti con demenza, come irritabilità, agitazione, depressione, ansia, disturbi del sonno, aggressività e apatia.

E’ prevista per mercoledì 15 luglio 2015 la scadenza per partecipare alla quarta edizione del Premio giornalistico promosso dalla Federazione Alzheimer Italia e da Unamsi “Alzheimer: informare per conoscere – cura, ricerca, assistenza”, che ha l’obiettivo di promuovere la più sensibile, corretta e completa informazione sulla malattia di Alzheimer.

Tra diabete e malattia di Alzheimer ci potrebbe essere un legame: lo suggerisce un nuovo studio sperimentale in cui si è visto che livelli elevati di glucosio nel sangue possono aumentare rapidamente i livelli di beta-amiloide, componente chiave delle placche cerebrali che caratterizzano i malati di Alzheimer e il cui accumulo è ritenuto un driver precoce della complessa serie di cambiamenti che portano allo sviluppo della malattia.

Sono 1.321 i volontari tra i 70 e i 74 anni, abitanti ad Abbiategrasso ( Milano), che hanno partecipato a uno studio scientifico sull’invecchiamento cerebrale contribuendo alla costruzione di una grande 'banca' di dati e di materiale biologico (DNA, cellule, sangue) da utilizzare per la ricerca scientifica sull’Alzheimer.

Morgantown, WV - I ricercatori del Blanchette Rockefeller Neurosciences Institute (BRNI) e della Marshall University Joan C. Edwards School of Medicine hanno recentemente annunciato i risultati ottenuti da un nuovo studio dal titolo "PSEN1 Variant in a Family with Atypical AD."
Secondo i ricercatori, un paziente affetto da una grave forma di Alzheimer con variante del gene PSEN1, avrebbe ottenuto promettenti benefici dal trattamento con il farmaco Bryostatin 1.

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