Dai risultati della 'Indagine sull'impatto delle malattie rare sulla vita quotidiana', realizzata da Eurordis, emerge l’esigenza di un sistema che guardi alla persona, non più solo al paziente

Quest’anno, Eurordis – Rare Diseases Europe ha pubblicato i risultati del primo sondaggio realizzato attraverso il Programma 'Rare Barometer Voices', uno strumento pensato con lo scopo di raccogliere, in modo sistematico e su argomenti comuni, i pensieri e le opinioni di coloro che vivono una malattia rara, in modo tale da consentire a chi sostiene la causa dei malati rari di focalizzare il proprio sforzo su ciò che emerge come veramente importante, supportato da dati complessivi validati scientificamente e corroborati dai commenti personali dei partecipanti.

Dal sondaggio, di cui è disponibile un ricco rapporto, emergono molti aspetti interessanti, ma, nel suo complesso, esso fa risaltare chiaramente un elemento che è connaturato alla rarità e alla cronicità di una patologia, e che emerge in tutta la sua significatività una volta superata l’urgenza della sopravvivenza: la qualità della vita.

Dato per acquisito il fatto di essere stati 'baciati dalla fortuna' e di avere una malattia rara, di aver guadagnato (o meno) una diagnosi e di aver stabilito che esiste un trattamento (oppure no), il sondaggio indaga un bisogno che rimane centrale, per il paziente e la sua famiglia: trovare un equilibrio tra le necessità imposte dalla cura di sé e quelle della vita quotidiana.

E’ un aspetto che sta emergendo solo da qualche anno a questa parte, ma che riveste una grandissima importanza. Inizialmente, l’impegno dei pazienti e di coloro che ne promuovono i diritti si è concentrato principalmente sull’aspetto clinico e farmacologico: in una parola, sulla cura. Ma come diceva una striscia di Mafalda tanti anni fa: “Purtroppo, l’urgente non lascia mai spazio all’importante”. Non si può pensare tanto alla qualità della vita quando si è nel rischio, più o meno costante, di perderla; per questo, le prime conquiste nel mondo delle malattie rare hanno riguardato il sostegno allo sviluppo e alla produzione dei farmaci orfani, il diritto alla cura, la ricerca in campo clinico e genetico. Tutte attività che continuano ad essere di fondamentale importanza, ma alle quali, ora, si affianca fortemente il tema della qualità della vita.

In questo contesto, l’ostacolo più grande è quello della complessità. Sappiamo che le malattie rare sono spesso causa di assai varie difficoltà di natura clinica, e possono interessare organi e aspetti diversi dell’organismo: per questo, è spesso richiesto il concorso di più specialisti nello sviluppo di in trattamento efficace. Di conseguenza, nei Paesi, nei centri di riferimento e nelle situazioni più fortunate, la clinica ha risposto con l’istituzione di una figura chiave: il 'case manager', lo specialista a cui viene affidato il coordinamento del singolo caso, dell’individuo con le sue specificità mediche e le sue particolari manifestazioni cliniche. Si tratta di un’ottima idea, che sperabilmente diverrà nel tempo la norma per il trattamento di patologie complesse come le rare. Esisteva, già da tempo, per patologie comuni e complicate come il diabete: i Centri Diabetologici hanno come ruolo fondamentale proprio quello della presa in carico del paziente. Ci aspettiamo, nel prossimo futuro, che così si riesca a fare anche per i malati rari. Tutti.

Ma cosa manca? Manca un passo fondamentale, quello di uscire dal circuito esclusivamente clinico, per affrontare i bisogni della persona malata (rara), non del paziente. Dal questionario di Eurordis emerge con forza il disagio di chi, pur correttamente preso in carico dal punto di vista clinico, affoga nelle infinite difficoltà che esulano da quest'ambito, difficoltà nel conoscere i propri diritti e nel vederli riconosciuti, nella necessità di coordinare aspetti sociali, lavorativi, scolastici, relazionali e psicologici, nel bisogno di avere, quindi, una vita per quanto possibile felice. Nel dover affrontare questi problemi, un malato raro è solo. Solo in un mondo che non è ancora in grado di vederlo nella sua interezza, nella sua integrità.

In parte, è un problema che è stato creato dagli stessi strumenti che hanno consentito a tanti malati rari di averla, una vita. Lo specialista di oggi è un medico che spesso ha dedicato la maggior parte del suo percorso di apprendimento e di tirocinio a un singolo distretto corporeo. Questo gli ha consentito di raggiungere un notevole grado di efficacia. Lo stesso vale per la ricerca clinica e farmaceutica: non è raro (sic!) conoscere persone che hanno lavorato per anni su una singola malattia rara, su un gruppo omogeneo di casistiche o su una molecola dalle allettanti ma evasive capacità terapeutiche. La complessità è stata affrontata (con tutti i distinguo del caso) con un approccio tayloristico, suddividendo un’area di conoscenza sterminata come quella della salute umana in porzioni gestibili. Questo non è accaduto solo in campo medico, è un approccio tipico di tutte le società industriali, che lo hanno trasferito, concettualmente poco mutato, anche in altri ambiti, compresi quelli dell’amministrazione, della cultura e delle scienze umane in generale: un approccio che ha poi rivelato i suoi difetti.

Il progresso tecnologico ha reso possibili imprese che in tempi passati, anche non troppo lontani, sarebbero state ritenute addirittura impensabili: il primo sequenziamento del genoma umano fu un progetto che impegnò per tredici anni migliaia di ricercatori in tutto il mondo (1990-2003): oggi siamo già al 'whole genome sequencing' (sequenziamento dell’intero genoma di una persona) e alla possibilità di individuare, in un tempo ridottissimo, la presenza di mutazioni indesiderate, rendendo possibile la diagnosi pre-impianto. Questo progresso ci ha consentito di affrontare con successo imprese enormemente complesse dal punto di vista quantitativo, ma nessuna macchina (per ora) ci può aiutare ad affrontare la complessità qualitativa insita, ad esempio, nel nostro caso, quello di un malato raro.

E’ questa la vera sfida della complessità, un complessità che è fonte di grande disagio per chi è costretto a viverne le conseguenze. Ogni giorno si è costretti ad affrontare non solo la malattia, ma anche tutte le conseguenze dell’inabilità da parte della società di trovare un modo per supportare adeguatamente chi si trova in questa situazione. Il sondaggio di Eurordis fornisce elementi interessanti: il 70% dei pazienti non si sente adeguatamente informato rispetto ai propri diritti, il 65% è in difficoltà nel dover gestire da solo i servizi sanitari, sociali, locali, che pure sarebbero lì per aiutarlo; i costi correlati alla malattia sono alti per il 73% dei rispondenti, mentre quasi la metà di essi cita, tra i primi servizi necessari a mantenere autonomia personale e di cura, la “terapia e riabilitazione” (48%) e il “supporto psicologico”.

Vale la pena di menzionare l’esperienza del servizio recentemente lanciato dalla Federazione Italiana delle Malattie Rare attraverso il progetto pilota SAIO (Servizio di Assistenza, Informazione e Orientamento). La Coordinatrice, Dottoressa Laura Gentile spiega: “Fin dalle prime telefonate che abbiamo ricevuto è emersa la difficoltà dei pazienti o dei familiari che chiamano nel dover costantemente ripartire da capo ad ogni nuovo passaggio, nel dover spiegare cos’è la malattia che li colpisce e quali sono le sue conseguenze, trovandosi frequentemente di fronte all’incomprensione di interlocutori non in grado di capire l’impatto costante, pesante e spesso imprevedibile che essa impone sulla loro esistenza. Colpisce l’emozione di chi ci chiama nel capire di avere a che fare con qualcuno che è ben consapevole di tutto ciò”. Il servizio si fa carico del sostegno psicologico immediato e di trovare le risposte che pazienti e familiari non riescono ad ottenere, ma non può assumere il ruolo che sarebbe necessario: quello di un 'case manager' che si occupi del coordinamento di tutte le esigenze del paziente, non solo dal punto di vista clinico, ma a tutto tondo.

E’ questo il prossimo salto di qualità di cui il mondo dei malati rari ha bisogno: i farmaci, il trattamento, il coordinamento medico sono tutte cose assolutamente necessarie, ma emerge sempre più chiaramente che la visione specialistica e settoriale dei bisogni delle persone impedisce loro di raggiungere un dignitoso livello di qualità di vita, al quale non sembrerebbe, tutto sommato, così eccessivo aspirare.

La necessità di affrontare l’individuo come un qualcosa che sia molto di più della somma delle sue parti non è nemmeno una novità. Senza voler fare una dissertazione storico-filosofica che risalga alla filosofia greca, concetti variamente 'olistici' sono stati presentati in svariati campi delle scienze umane, così come in medicina. A volte, questi concetti si sono ammantati di presupporti deistici, magici o generalmente ascientifici, che hanno finito per dare alla parola una connotazione poco rispettabile. Tuttavia, il tema è reale. La stessa scienza moderna accerta sempre più solidamente le correlazioni tra mente e corpo, tra disagio sociale e malattia, tra isolamento e incapacità di realizzare i propri obiettivi. Il modello biopsicosociale è stato proposto da G. L. Engels nel 1977, e sostiene, appunto, la stretta interrelazione tra fattori biologici, psicologici e sociali nel determinare l’esito di una situazione patologica. Da allora, pur essendogli stati riconosciuti meriti etici e teorici, questo modello non è stato ancora acquisito nella pratica medica e, men che meno, nella gestione globale dell’individuo da parte delle istituzioni statuali. Certo, nella nostra realtà corrente è un’idea che sfiora l’utopistico: avere un 'Superministero del benessere' - in grado di coordinare le relazione dell’individuo con tutti gli interlocutori destinati a supportarlo nella gestione della propria sofferenza e delle proprie difficoltà derivanti da uno stato patologico - è tema da fantascienza, eventualmente a tinte nere quando si pensi alle possibili interferenze indesiderate nelle proprie scelte e nella propria autonomia, ma a ben vedere non dovrebbe essere una pretesa così assurda.

I bisogni dei malati e delle loro famiglie sono chiari: avere la migliore assistenza medica possibile, sapere che la ricerca non si è completamente dimenticata di loro, che farmaci e terapie sono in arrivo; ma anche sapere che esiste qualcuno in grado di prendere in carico il loro caso, di guidarli attraverso la pletora di istituzioni, organismi ed enti che dovrebbero assicurare loro il maggior livello di benessere possibile, di non lasciarli affogare nell’impotenza e nella disperazione quando le soluzioni esistono, e di aiutarli a trovare nuove prospettive nei casi in cui le soluzioni ancora non ci siano.  

Ad esempio, uno dei principali problemi segnalati nel sondaggio di Eurordis è la difficoltà nel conciliare il lavoro con la malattia: anche in Italia, dove è possibile avere permessi speciali per gravi problemi di salute, tali permessi non sono retribuiti, e le assenze per malattia, superato un certo limite, consentono al datore di lavoro di risolvere unilateralmente il contratto. Non è molto diverso per i servizi sociali, la cui fornitura è spesso delegata ai comuni e, da questi, ai privati: sono spesso del tutto inadeguati, sia come quantità che come qualità; quasi sempre, devono essere i familiari a istruire terapeuti e assistenti nelle peculiarità della patologia, sperando di trovare una persona professionalmente e umanamente valida, perché nulla di tutto questo fa parte del bagaglio di conoscenze previsto per l’incarico, né tanto meno è previsto che il professionista possa impiegare parte del tempo per cui è retribuito per reperire informazioni e apprendere comportamenti.

A fronte di tutto ciò, è chiaro che se quella del 'Superministero del benessere' è una provocazione, il bisogno di un approccio integrato all’individuo è assolutamente reale. E’ necessario che si trovi il modo per allargare veramente l’approccio federativo che vediamo finalmente nascere in campo clinico, con le Reti di Riferimento Europee, a tutto lo spettro delle esigenze della persona malata e della sua famiglia, non più visti come 'paziente' e 'carer' (colui che del paziente si prende cura, e per il quale, in italiano, non esiste neanche un nome), ma come esseri umani. Questa è la sfida della complessità.

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