malattia polmonare NTM, prof. Francesco BlasiProf. Blasi (Milano): “L’antibiotico per via inalatoria, associato a farmaci somministrati per via sistemica, consente di raggiungere rapidamente, e in una percentuale più elevata di pazienti, la negativizzazione dell’espettorato”

L’aumento di incidenza della malattia polmonare da micobatteri non tubercolari (malattia polmonare NTM) è una realtà con cui pneumologi e infettivologi si stanno confrontando da tempo ma che, specie nel recente periodo, è divenuta un problema ancor più concreto, visto che i pazienti con HIV, quelli sottoposti a terapie immunosoppressive e i soggetti immunocompetenti affetti da pneumopatie croniche, sono caratterizzati proprio da una maggiore suscettibilità alle infezioni scatenate da questi batteri.

Sono note moltissime specie di micobatteri non tubercolari, ma non tutte hanno lo stesso peso clinico; quelle riconosciute come patogene costituiscono una frazione minore e, di certo, tra le specie più aggressive va annoverato il Mycobacterium avium complex (MAC) e il Mycobacterium kansasii. “Il problema dei micobatteri è che provocano una malattia altamente sottostimata, dal momento che prima di porre una diagnosi di micobatteriosi non tubercolare possono trascorrere anche anni”, spiega Francesco Blasi, professore di Malattie Respiratorie all’Università di Milano e direttore del Dipartimento di Medicina Interna e dell’Unità di Pneumologia e di Fibrosi Cistica della Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. “Il primo contatto, di solito, spetta all’infettivologo, che segue i pazienti immunocompromessi. Poi ci sono i pazienti con problemi respiratori, affetti da bronchiectasie [dilatazioni permanenti dell’albero bronchiale, N.d.R.] o fibrosi cistica, che sono a carico dello pneumologo. Nel 2-5% di questi soggetti è presente un’infezione da micobatteri non tubercolari”. Tuttavia, un soggetto con patologia respiratoria cronica che non risponda alle terapie usuali e che presenti una sintomatologia che include tosse, astenia, febbre e disturbi gastrointestinali, deve indurre il sospetto della presenza di un’infezione da micobatteri. La diagnosi di malattia polmonare NTM si basa sia sul riscontro clinico sia sul referto radiologico (una TAC al torace è d’obbligo), ma è l’esame microbiologico (il ritrovamento dei micobatteri nell’espettorato o nei campioni prelevati con broncoscopia) a giocare la parte del leone.

Una volta posta la diagnosi, però, le cose si complicano, perché i micobatteri non tubercolari sono dotati di una parete che impedisce l’afflusso di antibiotici e chemioterapici all’interno della cellula, evidenziando pertanto una resistenza intrinseca agli antibiotici, similmente ai batteri tubercolari. “Nell’organismo, i micobatteri sono presenti in numero elevato e all’interno di questo corposo gruppo si ritrovano già delle forme potenzialmente resistenti agli antibiotici in uso”, prosegue Blasi. “Ciò comporta la necessità di usare più antibiotici e chemioterapici insieme, in modo da ridurre la probabilità di selezionare batteri resistenti al trattamento. I soggetti malati vanno così incontro a un trattamento con 3-5 farmaci per periodi che spaziano da 12 a 24 mesi. È una terapia molto impegnativa, perché quando si riuniscono più farmaci insieme aumenta la probabilità di incorrere in effetti collaterali anche severi”. I farmaci più utilizzati per contrastare l’infezione sono l’etambutolo e i macrolidi (azitromicina o claritromicina) e, a seconda della tipologia dei batteri, si associano farmaci quali gli aminoglicosidi (come l’amikacina) o altri, come la rifampicina.

Recentemente, la ricerca ha iniziato a focalizzarsi sui farmaci per via inalatoria. Ciò presuppone dei vantaggi: si porta l’antibiotico ad alta concentrazione direttamente nel sito di infezione e si riducono in maniera significativa gli effetti collaterali a livello sistemico, perché l’antibiotico, giunto nel sito di infezione, non passa attraverso il sistema circolatorio e non arriva al fegato: perciò, il livello di assorbimento è molto più basso. “L’esposizione dell’organismo è decisamente ridotta”, spiega Blasi. “Inoltre, somministrandolo per via inalatoria, l’antibiotico raggiunge concentrazioni più elevate a livello dell’alveo respiratorio e ciò consente, in molti casi, di ottenere il superamento di certe resistenze legate alla concentrazione che il farmaco stesso raggiunge nei confronti del batterio presso i siti d’infezione. L’antibiotico per via inalatoria, associato a farmaci somministrati per via sistemica (orale o endovenosa) consente di raggiungere rapidamente, e in una percentuale più elevata di pazienti, la negativizzazione dell’espettorato. Ciò significa non tanto l’eliminazione completa dei batteri in questi soggetti, ma la conferma che la terapia funziona, che è stata ridotta in maniera significativa la carica dei batteri e che esiste, quindi, una maggior probabilità che il paziente migliori in tempi veloci”.

Tuttavia, la difficoltà della gestione dei pazienti con malattia polmonare da micobatteri non tubercolari risiede proprio nel dover somministrare un cocktail farmacologico tossico per l’organismo che deve essere assunto per periodi di tempo prolungati. Naturalmente, il livello di complessità di una terapia che richiede più farmaci per un lungo periodo di tempo, e che è quindi gravata da effetti collaterali, implica che la gestione del paziente avvenga in un ambiente superspecialistico. “Ci vogliono figure altamente specializzate”, conclude l’esperto milanese. “Attualmente, stiamo cercando di realizzare una rete di centri di riferimento specializzati presso cui indirizzare i pazienti. In Italia, inoltre, è in fase di costruzione un registro delle infezioni da micobatteri non tubercolari [registro IRENE, N.d.R.], che è incardinato nella Fondazione Ca' Granda di Milano e sta coinvolgendo sia le Unità di Pneumologia e Infettivologia che i centri italiani con maggiore esperienza specializzati nel trattamento della fibrosi cistica. È fondamentale che ognuno di essi lavori in appoggio alle microbiologie di riferimento, perché la gestione microbiologica della diagnosi di micobatteri non tubercolari necessita, oltre che dei laboratori adeguati, anche di una certa competenza da parte dei microbiologi”.

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