Mielofibrosi: storia di Nazzareno

“Dopo numerose terapie ho dovuto affrontare anche un trapianto di cellule staminali ematopoietiche: oggi, finalmente, posso dire di stare bene”

Nel 1997, quando i telefoni cellulari riuscivano al massimo a fare chiamate e mandare messaggi di testo e la connessione a internet era ancora agli albori, racimolare informazioni su una malattia rara era impegnativo e difficoltoso. Inoltre, una volta messe insieme le poche nozioni disponibili ciò che ne derivava era solo una grande apprensione per il proprio futuro. Se per certi versi le cose non sembrano essere troppo cambiate, la storia di Nazzareno, ex ferroviere, affetto da policitemia vera poi mutata in mielofibrosi, insegna che la medicina ha compiuto enormi balzi avanti e che, per prendere decisioni consapevoli e informate, occorre prima di tutto rivolgersi agli esperti che conoscono bene l’argomento, prima che al ‘dottor Google’.

LA PRIMA DIAGNOSI: POLICITEMIA VERA

Un giorno di febbraio del ‘97 ero seduto alla mia scrivania, intento a lavorare al computer, quando ho avuto un giramento di testa”, ricorda Nazzareno. “Improvvisamente sono stato colto dalla nausea e ho cominciato a sudare freddo. I colleghi mi hanno immediatamente soccorso, sospettando un calo di zuccheri, ma quando il medico ha letto i risultati delle analisi di medicina del lavoro, che avevo fortuitamente eseguito alcuni giorni prima, mi ha raccomandato di contattare al più presto un ematologo”. Il parametro che aveva fatto scattare il campanello d’allarme era incluso nell’esame emocromocitometrico: si tratta dell’ematocrito, che esprime la proporzione di globuli rossi nel sangue. Qualora questo valore sia troppo alto il sangue diventa viscoso e scorre con più difficoltà, innalzando il rischio di ictus o di altre problematiche.

Nel giro di alcuni giorni Nazzareno fu sottoposto ad ulteriori accertamenti, al termine di quali ricevette una diagnosi di policitemia vera, un raro tumore del sangue che provoca un’incontrollata proliferazione dei globuli rossi - cosa che spiega l’alto valore di ematocrito. “Avevo 38 anni e quando ho letto su internet che cosa fosse quella malattia sono scoppiato a piangere”, prosegue Nazzareno. “Non se ne parlava molto perché poche persone conoscevano la patologia. Successivamente, la scoperta della mutazione nel gene JAK2 ha cambiato il quadro, consentendo di fare diagnosi più precise, ma fino a quarant’anni fa i malati potevano essere colti da ictus, infarto o trombosi senza avere il minimo sospetto che la causa potesse essere una malattia rara come la policitemia vera”.

L’EVOLUZIONE DELLA MALATTIA E LA TRASFORMAZIONE IN MIELOFIBROSI

Nazzareno è stato sottoposto ai trattamenti a base di idrossiurea e ha cominciato la pratica dei salassi, durata fino al 2010, anno in cui la sua situazione ematologica è di nuovo mutata: la milza è aumentata di dimensione e i valori dell’emocromo sono usciti dagli intervalli di normalità. Dopo aver fatto una nuova biopsia del midollo, i medici comunicarono a Nazzareno che c’era stata un’evoluzione della malattia, da policitemia vera a mielofibrosi. A quel tempo i test molecolari per la ricerca della mutazione in JAK2 erano diventati disponibili e Nazzareno li eseguì scoprendo di essere positivo. “È stato uno sconcerto perché era chiaramente un aggravamento della mia malattia”, continua. “Avevo perso peso, mi sentivo affaticato e stanco e provavo spesso dolore all’addome”. I medici dell’ospedale dove era seguito gli diedero una terapia a base di interferone, che però non produsse effetti ma anzi peggiorò la sintomatologia. Perciò Nazzareno fu inviato all’attenzione del professor Alessandro Vannucchi, ematologo di Firenze, considerato uno dei maggiori esperti di mielofibrosi in Italia.

Al reparto di Ematologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze era in corso un trial clinico su ruxolitinib, un farmaco inibitore della Janus chinasi (JAK), poi approvato per la gestione della splenomegalia. Seguito dalla professoressa Paola Guglielmelli, Nazzareno cominciò ad assumere il medicinale e, dopo alcuni iniziali difficoltà (principalmente il calo del livello di emoglobina) che hanno reso necessaria una correzione della dose, i benefici del trattamento hanno preso a farsi sentire, tanto da lasciare i valori ematici stabilmente nella norma. Almeno fino al 2017.

NUOVI SINTOMI: SI RENDE NECESSARIO IL TRAPIANTO

Ad un tratto - riprende Nazzareno - anche l’effetto del ruxolitinib è svanito. La milza era tornata a ingrossarsi e fui sottoposto a regolari trasfusioni di sangue. A quel punto, però, il livello del ferro era pericolosamente elevato e io stavo molto male. I medici hanno provato a inserirmi in un nuovo trial statunitense ma senza che la mia situazione cambiasse. Continuavo a soffrire”. Al termine di vari consulti con diversi ematologi - tra cui il professor Francesco Passamonti, del Policlinico di Milano - tutti gli specialisti concordarono sulla necessità che Nazzareno si sottoponesse al trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, una procedura che prevede che il paziente riceva le cellule staminali da un donatore per sostituire le proprie difettose e ripopolare il midollo, consentendo la ripresa dell’emopoiesi. “Il professor Andrea Bacigalupo, ematologo del Policlinico Universitario Gemelli di Roma, mi spiegò la situazione dicendomi che senza quella procedura avrei avuto davanti ancora pochi anni di vita”, precisa Nazzareno “D’altronde, anche il trapianto non era privo di rischi”. Quando gli fu prospettato l’intervento Nazzareno aveva 60 anni e una lunga storia di malattia, con un midollo osseo pesantemente condizionato dalla mielofibrosi, sia a livello istologico che morfologico. “Ho messo tutti i pro e i contro sui piatti della bilancia e alla fine, insieme alla mia famiglia, ho optato per la procedura”.

UNA SFIDA VINTA INSIEME ALLA FAMIGLIA

Un primo intoppo sulla strada del trapianto era dovuto al fatto che Nazzareno aveva perso entrambi i fratelli e che i figli - per ragioni differenti - erano risultati incompatibili con la procedura. Perciò, il suo nome è stato iscritto nel Registro nazionale dei donatori: dopo un certo periodo di attesa si sono resi disponibili due candidati, che però non avevano una compatibilità perfetta. Il professor Bacigalupo optò per uno dei due, ma sette mesi prima del trapianto a Nazzareno fu asportata la milza. “Durante le settimane in cui mi ripresi dall’operazione mia moglie e i miei figli hanno predisposto tutto per il trapianto”, racconta con commozione Nazzareno. “Hanno trovato un appartamento nei pressi del Gemelli dove avrei vissuto per i circa tre mesi successivi alla procedura, così da poter effettuare agevolmente i controlli. Hanno preparato tutto il necessario nella massima sterilità e quando sono arrivato a Roma, a settembre del 2019, ogni cosa era pronta”.

La procedura è andata bene. Nazzareno non ha riportato infezioni e il processo di attecchimento delle nuove cellule è stato giudicato ottimale. Tuttavia, dai controlli fatti nel corso dei mesi successivi è emersa traccia di un residuo di cellule malate, sulla base di cui i medici hanno prescritto a Nazzareno una terapia a base di interferone che continua ancora oggi. “Le ultime analisi eseguite sono buone e, a parte qualche acciacco dell’età e il laparocele che si è formato in seguito all’operazione di asportazione della milza, sto bene e sono felice di questo”.

L’IMPORTANZA DEL SUPPORTO DA PARTE DI MEDICI E ASSOCIAZIONI

“Quando ho deciso di sottopormi al trapianto di cellule staminali ematopoietiche ero consapevole di che cosa implicasse la procedura”, afferma ancora Nazzareno. “Ho presto capito quanto fosse determinante ottenere informazioni accurate, precise e attendibili, perciò col tempo mi sono avvicinato al Gruppo AIL Pazienti MMP Ph-, dove ho conosciuto persone come Massimiliano e GiampieroHo partecipato agli incontri medico-paziente e coltivato il dialogo con gli specialisti che mi seguivano, perché mi sono reso conto che era il modo più corretto per fare mio un argomento che mi riguardava in prima persona”.

E non si può dire che l’esperienza di Nazzareno non sia stata d’ispirazione per altri. Infatti, il figlio minore - che aveva solo tre anni all’epoca in cui il padre aveva ricevuto la prima diagnosi - ha deciso di studiare medicina e di specializzarsi in Ematologia. “Non posso dire che la sua decisione sia dipesa esclusivamente dalle mie condizioni - conclude Nazzareno - ma credo che qualcosa l’abbia spinto. Oggi mi racconta delle terapie a base di cellule CAR-T contro i mielomi e le sue parole di speranza permettono di rileggere la mia esperienza da una prospettiva nuova e incoraggiante. Non dobbiamo mai smettere di sostenere la ricerca scientifica”.

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