La dr.ssa Malato spiega i sintomi della mielofibrosiRispondono gli esperti: il Prof. Guido Finazzi e la Dr.ssa Alessandra Malato

La mielofibrosi è una neoplasia mieloproliferativa cronica che provoca una costellazione di sintomi ampia e non sempre ben specifica ma che include un segno clinico quasi sempre presente: la splenomegalia. Con questo termine si intende definire l’ingrossamento delle dimensioni della milza, che è forse la manifestazione clinica più tipica della malattia e si trascina un corteo di sintomi in grado di mettere a dura prova la vita del paziente. La splenomegalia, infatti, è presente in buona parte delle neoplasie mieloproliferative croniche all’interno delle quali ha un carattere decisamente variabile: si passa da una milza di dimensioni talvolta normali nelle mielofibrosi pre-fibrotiche per arrivare ad una milza moderatamente aumentata (non più di 5 cm dall’arcata costale) nella policitemia vera, fino a giungere a milze enormi (anche oltre 10 cm dall’arcata costale e che possono occupare quasi tutto l’addome) tipiche della mielofibrosi franca. Naturalmente, maggiori sono le dimensioni della milza e più seri sono i sintomi: difficoltà di digestione, sensazioni di pesantezza, dolori a livello dell’addome e sazietà anche dopo aver mangiato poco, irregolarità nella funzione intestinale).
La splenomegalia è un aspetto piuttosto evidente e problematico della mielofibrosi e richiede una trattamento efficace.

“La mielofibrosi non ha una terapia standard ben chiara come quella della policitemia vera” – afferma il prof. Guido Finazzi, responsabile Unità Semplice Malattie Mieloproliferative Croniche della U.O.C. di Ematologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – “Si trattano i sintomi come l’anemia o la splenomegalia stessa. Fino all’avvento di ruxolitinib non esisteva un farmaco realmente efficace nel contenere la sintomatologia”. I pazienti con mielofibrosi si distinguono in classi non basate tanto sul rischio trombotico quanto sulle possibilità di sopravvivenza; esistono modelli prognostici come l’International Prognostic Scoring System (IPSS) che sulla base di parametri come l’età, il livello di anemia, il numero di globuli bianchi, e la presenza di cellule leucemiche o di sintomi costituzionali (febbre, calo di peso, intensa sudorazione notturna) suddividono i pazienti in 4 classi: basso rischio, intermedio-1, intermedio-2 e alto rischio. Ad ognuna di queste si associa una prognosi progressivamente peggiore. “Ruxolitinib può essere indicato da subito, in prima linea e per tutte le fasce citate esclusa quella a basso rischio” – specifica Finazzi ricordando un decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 23 dicembre 2017 nel quale sono indicate le nuove classi di rimborsabilità di ruxolitinib. L’estensione dell’indicazione è data dal fatto che solo fino a pochi mesi fa l’AIFA considerava rimborsabile ruxolitinib nelle fasce intermedio-2 e ad alto rischio. Di recente, invece, il farmaco è divenuto rimborsabile anche per i soggetti classificati come intermedio-1 per cui ha dimostrato una buona efficacia.  

“Fino a questo momento la mielofibrosi di grado più elevato era l’unica forma di patologia che aveva indicazione per il trattamento con ruxolitinib” – spiega la dott.ssa Alessandra Malato, della U.O.C. di Ematologia con Trapianto, Ospedali Riuniti Villa Sofia - Cervello di Palermo – “Questo farmaco è un anti-JAK2 che agisce sulla patologia con modalità piuttosto variegata: controlla i sintomi sistemici importanti, partecipa alla riduzione del volume della milza e, in diversi studi, è stato osservato anche un impatto sulla riduzione del rischio di mortalità”. Ruxolitinib è principalmente un farmaco sintomatico, che non cambia la biologia della malattia. Di certo migliora la qualità di vita del paziente ma non guarisce in via definitiva dalla malattia. “Tuttavia, l’ampliamento della terapia anche a fasce di mielofibrosi più lievi, come quelle dei pazienti intermedio-1, porterà sicuramente benefici” – continua Malato – “Il vantaggio del trattamento della mielofibrosi avanzata è, infatti, notevole: sono osservabili miglioramenti consistenti e anche se il farmaco perde potenza in termini di riduzione di patologia, in realtà continua a mantenere il suo effetto sulla riduzione di quei sintomi quotidiani che peggiorano la qualità di vita del paziente. Il soggetto con una patologia allo stadio iniziale sarà sicuramente avvantaggiato rispetto a quello con una malattia più tardiva”. In modo particolare, i casi di forte aumento delle dimensioni della milza, in seguito al trattamento con ruxolitinib possono trasformarsi in situazioni più gestibili, anche in vista di un eventuale trapianto di cellule staminali emopoietiche.

“Casi di severa splenomegalia possono richiedere interventi chirurgici urgenti” – conferma Malato – “Ridurre la splenomegalia prima del trapianto, ad esempio, è uno dei fattori che può concorrere a favorire l’attecchimento del trapianto stesso o, quanto meno, ad aumentare la compliance del paziente”.
La mielofibrosi è una malattia progressiva e può guarire definitivamente solo attraverso il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche che costituisce, tuttavia, un intervento ad alto rischio per il paziente – in particolar modo per quello anziano. In seguito al miglioramento delle terapie di condizionamento e di supporto la sopravvivenza all’intervento è sicuramente aumentata tanto che il trapianto è indicato in tutti i pazienti fino a 70 anni classificati come intermedio-2 o ad alto rischio. “Ruxolitinib ha dimostrato di essere un farmaco valido anche all’interno di una strategia bridge to transplant, cioè per ridurre il più possibile la patologia prima che il paziente arrivi al trapianto, in modo tale da ridurre i rischi dell’intervento”. È sicuramente prematuro affermare che il farmaco possa ridurre il numero di trapianti ma è stato possibile osservare come ruxolitinib agisca meglio sui sintomi precoci. “Se interveniamo prima miglioriamo velocemente la situazione di questi pazienti che potrebbero beneficiare anche di una riduzione del rischio di mortalità”. I pazienti a rischio inferiore, infatti, si trovano nelle migliori condizioni per il trattamento. “La somministrazione di Ruxolitinib va modulata in base ai risultati degli esami del sangue” – conclude l’esperta siciliana – “Nei primi 6 mesi di trattamento il farmaco tende a ridurre la conta dei globuli rossi e a far abbassare le piastrine. Non sono rare le modifiche della posologia da applicare in corsa. Un paziente in fascia di rischio intermedio-1 nella maggior parte dei casi presenta un pannello di esami del sangue entro i valori di norma che ci permettono di attuare un trattamento a dosaggio pieno, cosa difficile da fare quando il paziente ha una malattia avanzata. Per questo ci si attende una tollerabilità sicuramente maggiore”.

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