Grazie alla terapia la donna è oggi in buona salute e può decidere se sottoporsi a trapianto di cellule staminali ematopoietiche, l’unica opzione curativa per la patologia
Quello dei pazienti affetti da mielofibrosi è in tutto e per tutto un calvario che spesso si prolunga per lunghi periodi di tempo. Ne sa qualcosa Marinella, oggi sessantaduenne, che ha cominciato ad avere a che fare con questo tumore ematologico a soli quarantasei anni, senza peraltro riportare alcuno dei sintomi comunemente ascritti alla malattia. Nel corso del tempo, però, il carico della mielofibrosi sulla sua vita si è fatto via via più pesante, prima con una sensazione di costante affaticamento, che la faceva sentire costantemente stanca e priva di energie, e poi con un’infiammazione della terminazione nervose che le aveva reso l’esistenza quasi del tutto insopportabile.
“A gennaio del 2008 soffrivo di ripetuti episodi di iperacidità gastrica”, ricorda Marinella. “Non riuscivo a mangiare nulla più della pasta in bianco e non trovavo una soluzione, così decisi di rivolgermi al medico di famiglia che mi ordinò alcuni esami, ai quali, visto che da un po’ non eseguivo un check-up generale, aggiunse anche l’emocromo”. Quest’ultimo è uno dei più comuni, ma al contempo rilevanti, esami di laboratorio, che restituisce i valori degli elementi corpuscolari (globuli rossi, bianchi e piantine) di cui è composto il sangue: l’emocromo, dunque, è il punto di partenza per indagare eventuali sospetti legati a malattie onco-ematologiche e del midollo. Nel caso di Marinella i parametri chiave dell’emocromo risultarono del tutto sballati: il referto presentava una lista di asterischi, di cui i più gravi riguardavano i valori dell’emoglobina e dell’ematocrito, esageratamente elevati. “Visto che non presentavo alcun segnale di malessere, il medico ipotizzò un problema sullo strumento di analisi o uno scambio di provette di sangue e mi chiese di ripetere l’esame presso un altro centro”, prosegue Marinella. “Il risultato fu però identico e nel giro di ventiquattro ore avevo già effettuato la prima seduta di eritroaferesi [una procedura di rimozione di parte dei globuli rossi dal sangue circolante, N.d.R.]”. La diagnosi posta fu di policitemia vera, un raro tumore del sangue, e da quel momento in poi Marinella iniziò con la regolare pratica dei salassi, che avevano l’obiettivo di ridurre il volume di globuli rossi e ristabilire un valore accettabile di ematocrito.
“Ero completamente asintomatica”, precisa la donna. “Non avevo prurito, né mal di testa o rossore del volto, né avvertivo un senso di vertigine. I medici ne furono alquanto stupefatti. Fin dalla prima diagnosi, l’ematologo da cui ero seguita sospettò che la policitemia vera stesse già evolvendo verso la condizione di mielofibrosi e, di fatto, quando eseguii la biopsia midollare, l’analisi condotta sul materiale ottenuto confermò che si trattava di mielofibrosi di grado intermedio-2”.
Poco più tardi Marinella cominciò a presentare i primi problemi legati all’ingrossamento della milza, perciò i medici eseguirono immediatamente un esame genetico alla ricerca della mutazione del gene JAK2, che interessa una buona metà di coloro che hanno la mielofibrosi: per questi pazienti, infatti, nel 2010 era in corso un trial clinico su un farmaco sperimentale, il ruxolitinib [oggi regolarmente approvato per il trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti con mielofibrosi primaria oppure con mielofibrosi insorta post-policitemia o post-trombocitopenia, N.d.R.]. Marinella, però, risultò negativa al test e non fu inserita nel trial. Nel frattempo, la sua milza continuava a crescere di dimensioni e la stanchezza si intensificava, tanto da farle risultare difficoltoso salire anche solo una piccola rampa di scale.
“Cinque anni dopo, nel 2015, mi fu comunque prescritto il ruxolitinib per tentare di riassestare, almeno in parte, la situazione”, continua la donna. “All’inizio i medici non osservarono miglioramenti nei miei valori ematici, che anzi aumentarono costringendomi a proseguire i salassi”. Il problema più grave rimaneva, però, a livello della milza, che era arrivata a circa 32 cm, una dimensione spropositata per una persona alta poco più di un metro e mezzo e del peso corporeo di meno di 60 kg. In queste condizioni, la milza spostava altri organi, tra cui il rene – con un serio pericolo di danni – e la vescica; inoltre comprimeva lo stomaco, costringendo Marinella a fare pasti piccoli e frequenti, composti in larga parte da minestre e passati di verdura, perché la digestione era diventata lentissima. La situazione era seria. Marinella, pur non avvertendo altri sintomi della mielofibrosi, si sentiva appesantita e provava forti dolori agli arti inferiori, sempre gonfi a causa del ristagno di liquidi provocato dalla compressione dei vasi sanguigni esercitata dalla milza ingrossata. La circolazione era pessima e nemmeno le calze elastiche le davano conforto.
Gradualmente, però, il farmaco ruxolitinib fece il suo effetto e le dimensioni della milza presero a scendere, ma nel contempo qualcosa di nuovo cominciò a infastidire Marinella. “Lo potrei definire un dolore pungente che si espandeva a tutto il corpo e che presto divenne insopportabile”, ricorda. “All’inizio la sensazione era come di insetti che mi camminassero appena sotto la pelle ma poi questa si intensificò, come se tutto il mio corpo fosse stato punto dalle ortiche. I medici pensavano fosse il prurito, un sintomo della mielofibrosi, ma io non mi grattavo: il dolore pungente era sempre più forte, cercavo di calmarlo col ghiaccio ma non funzionava”.
Marinella tentò di tutto: creme, balsami, prodotti a base di olio d’oliva, antistaminici, farmaci per l’epilessia, persino l’ozonoterapia: qualsiasi cosa per fermare quella sensazione che le stava rendendo la vita un inferno. “Arrivarono a dirmi che era un problema di origine psicosomatica ma sapevo che non poteva essere così. Finalmente fui visitata da un neurologo che capì al volo”, prosegue. “Mi ordinò uno studio neurofisiologico per la diagnosi del dolore neuropatico e concluse che si trattava di segni di disfunzione delle fibre nervose C con distribuzione prevalentemente distale e coinvolgimento simmetrico sia delle mani che dei piedi”. Marinella aveva un’infiammazione delle terminazioni nervose sensitive: era un effetto collaterale della terapia farmacologica ma non c’era una cura. Qualche tempo dopo, però, un otorinolaringoiatra e dentista, amico di famiglia, le suggerì di assumere un farmaco a base di calcio che, nel suo caso, avrebbe potuto portare un beneficio a livello neurologico [il calcio, infatti, è un elettrolita fondamentale nella trasmissione degli impulsi nervosi, N.d.R.]. “Funzionò”, afferma Marinella. “Da allora cominciai a migliorare e, grazie a questa soluzione, riesco a gestire meglio un effetto collaterale che adesso si manifesta più raramente e in forma leggera”.
Dopo un anno e mezzo i valori ematici di Marinella si stabilizzarono e la sua milza tornò di dimensioni normali. Ciò le consentì di interrompere la terapia con idrossiurea – medicinale che le era stato prescritto durante la fase critica di malattia – e di mantenere solo il ruxolitinib. “Alcuni anni fa ho svolto una visita presso l’Unità di Ematologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze, dove ho fatto altri accertamenti che hanno messo in luce una mutazione minore nell’esone 12 del gene JAK2”, aggiunge Marinella. “Inoltre, la rivalutazione del mio caso ha permesso di dire che la mielofibrosi era passata dal grado intermedio-2 all’intermedio-1. È un buon risultato, in linea con il mio attuale stato di salute. Oggi vivo una condizione di vita normale, non ho alcun sintomo e la milza è tornata ad essere di dimensioni normali, intorno ai 12 cm. Perciò i medici mi hanno proposto di effettuare il trapianto allogenico di cellule staminali”.
Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è la sola cura risolutiva per la mielofibrosi e a Marinella i dottori hanno spiegato che era una candidata ottimale, vista la sua giovane età, le buone condizioni di salute e le dimensioni della milza. “Durante tutto il mio percorso di trattamento mi sono sempre sentita ben presa in carico dagli specialisti dei centri che ho visitato e dal personale che mi ha seguita”, spiega la donna. “Ho fiducia nei medici, ma di fronte a questo passo sono ancora incerta. Se qualcosa dovesse andare storto la mia vita potrebbe essere a rischio. Quando una persona sta male è disposta a rischiare di tutto pur di guarire ma io, in questo momento, mi sento bene e la prospettiva di un intervento con uno strascico così lungo e pensante mi intimorisce, per cui per ora ci sto ancora pensando”. Inevitabilmente, una decisione di questa portata va valutata da molte prospettive.
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