Uno studio ha analizzato gli aspetti che occorre valutare attentamente prima di intraprendere il trattamento: funzionalità motoria, dolore, rachitismo, problematiche di crescita e rischio di fratture ossee

La lapidaria domanda “To Treat or not to treat?”, ossia “trattare o non trattare?”, aleggia da sempre nelle sale di tutti i convegni e i congressi medici del pianeta, perché in qualsiasi settore, e specialmente in quello delle malattie rare, il dilemma di sottoporre o meno i pazienti a un nuovo trattamento è secondo solo, in termini di importanza, all'efficacia della terapia di cui si dibatte. In un recente articolo, intitolato semplicemente “Childhood hypophosphatasia: to treat or not to treat” e apparso sulla rivista Orphanet Journal of Rare Diseases, il dott. Eric T. Rush, del reparto di Genetica Clinica del Kansas Medica Center di Kansas City (USA), dopo aver esaminato nel dettaglio le diverse forme cliniche di ipofosfatasia (HPP) e le sue cause, si sofferma sui benefici della nuova terapia di sostituzione enzimatica a base di asfotase alfa e ragiona sulla necessità di operare un’accurata selezione dei pazienti adolescenti da sottoporre al trattamento, in relazione alla gravità della malattia e all’estensione del corredo sintomatico.

L'ipofosfatasia è una patologia che insorge su base ereditaria e inficia il corretto sviluppo delle ossa e dei denti. Si tratta di una malattia sistemica che colpisce il processo di mineralizzazione e, pertanto, produce forti ripercussioni sulle ossa; i sintomi, tuttavia, possono estendersi al sistema nervoso centrale, ai muscoli, alle articolazioni, ai polmoni, ai reni e ai denti (il dentista è una delle figure chiave per ottenere una diagnosi precoce delle forme di malattia ad insorgenza tardiva). La malattia origina da una mutazione a danno del gene ALP che contribuisce alla sintesi degli isoenzimi della fosfatasi alcalina, fondamentale per il processo di mineralizzazione delle ossa. Sulla base del fenotipo clinico e del momento d’insorgenza, l’ipofosfatasia è stata suddivisa in 4 sub-categorie: perinatale, infantile, adolescenziale e dell’adulto. La forma più grave compare presto e si eredita con modalità autosomica recessiva.

L’ipofosfatasia ha un notevole impatto sulla qualità di vita dal momento che comporta una progressiva riduzione della mobilità con parallela cronicizzazione del dolore e aumento del rischio di fratture, e, per tale ragione, necessita di un trattamento solido ed efficace. La terapia enzimatica sostitutiva (ERT) con asfotase alfa, somministrata per via sottocutanea, rappresenta la nuova frontiera di trattamento per le forme più severe, come quella perinatale e quella infantile.

I dati al momento disponibili indicano che gli individui affetti da grave ipofosfatasia, che necessitano di trattamenti continui nell’arco della vita, hanno tratto beneficio, dopo 48 settimane di terapia con asfotase alfa, non solo in termini di mineralizzazione ma anche di recupero della funzionalità respiratoria e di guarigione dal rachitismo. La terapia è stata ben tollerata e il confronto con i controlli ha messo in luce anche un significativo aumento della sopravvivenza. Tuttavia, data l’estensione dello spettro clinico dell’ipofosfatasia, nel caso della malattia adolescenziale è fondamentale discutere con i pazienti l’opportunità di iniziare un trattamento di questo tipo, che, per quanto sorprendente nei risultati, è ancora relativamente “nuovo” e molto costoso.

Nella HPP adolescenziale, un primo punto su cui ragionare è la mobilità. La terapia di sostituzione enzimatica è necessaria nei casi in cui la sola fisioterapia non sia sufficiente a garantire un miglioramento della qualità di vita del paziente. L’ipofosfatasia incide pesantemente sulla funzionalità motoria, costringendo i pazienti a ricorrere a dispositivi d’ausilio per la deambulazione o a costanti sedute di fisioterapia che rappresentano il primo passaggio terapeutico, al di là del quale può trovare spazio la terapia di sostituzione enzimatica, soprattutto nel caso in cui non siano stati registrati miglioramenti. Un discorso analogo si può applicare alla valutazione del dolore: dolori articolari, ossei o muscolari sono un motivo costante per chi soffre di ipofosfatasia e vanno accuratamente misurati con gli strumenti opportuni (come la scala di Wong-Baker) e trattati con la terapia fisica, il riposo e, in casi più gravi, con il ricorso ad antinfiammatori non steroidei. Nei casi più severi, invece, la terapia di sostituzione enzimatica può essere una valida scelta, ma deve giungere solo in seguito ad una valutazione semestrale o annuale del paziente. Diverso è il discorso del rachitismo, che può essere combattuto con la supplementazione di minerali o di vitamina D. Purtroppo, questo approccio non sempre da buoni frutti, rendendo altamente consigliata, specie nei casi peggiori, la ERT. In presenza di pazienti con problematiche di crescita, la valutazione del singolo caso diviene ancora più importante perché una bassa statura non necessariamente trova nell’ipofosfatasia la spiegazione primaria. È prioritario studiare la velocità di crescita del soggetto in rapporto al grado di mineralizzazione ossea prima di decidere se sottoporlo o meno a terapia di sostituzione enzimatica. Infine, uno dei fattori che non possono essere trascurati è il rischio di fratture ossee: in caso di soggetto ad alto rischio la ERT è caldamente consigliabile.

In conclusione, gli individui affetti da una forma di ipofosfatasia leggera possono essere monitorati attentamente in programmi di follow-up dedicati, per studiare l’evoluzione della malattia prima di un eventuale trattamento con ERT, che è invece suggerito nel caso di soggetti con significativa alterazione dei test funzionali (quali il test del cammino in 6 minuti) o in quelli con pesanti limitazioni sul piano motorio. Infatti, studiare la malattia e capire quali siano i pazienti a cui meglio si applichi questo approccio terapeutico rimane fondamentale per conseguire risultati di prima qualità.

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