Il 17enne canadese è morto poche settimane fa, mentre il bambino siriano salvato nel 2015 dall'équipe italiana dell'Università di Modena e di Holostem – Terapie Avanzate sta bene. L’intervista al Prof. De Luca
Modena – Jonathan Pitre non ce l'ha fatta: il ragazzo canadese a soli 17 anni si è arreso a una setticemia in un ospedale del Minnesota, il 4 aprile scorso. Jonathan era affetto da epidermolisi bollosa, una rara patologia genetica che provoca ferite, bolle e scollamento dell'epidermide dal derma, anche per sfregamenti o traumi di lieve intensità. I pazienti affetti da questa malattia, che colpisce dalla nascita 500.000 persone nel mondo (una su 17.000), vengono chiamati “bambini farfalla” per la fragilità della loro pelle.
La storia di Jonathan richiama alla mente quella di un altro bambino, Hassan: quest'ultima, però, fortunatamente ha avuto un esito positivo. Ora Hassan ha dieci anni e sta bene, ma nel 2015 i medici avevano perso le speranze di salvargli la vita. Già con una storia difficile alle spalle, il profugo siriano viveva con i genitori in Germania, dove all'età di sette anni fu ricoverato all'ospedale di Bochum per l'aggravarsi della sua malattia, che l'aveva portato a perdere l'80% della pelle. A salvarlo è stata l'équipe del Centro di Medicina Rigenerativa dell'Università di Modena e Reggio Emilia, diretta dal prof. Michele De Luca, che a partire da una minuscola biopsia di pelle prelevata dal paziente, in seguito alla coltura in vitro presso Holostem – Terapie Avanzate, è riuscita a ricostruire la quasi totalità della sua epidermide.
La vicenda del bambino, raccontata da La Repubblica nell'articolo di Elena Dusi “La seconda pelle di Hassan”, lo scorso 27 marzo ha vinto il Premio Giornalistico O.Ma.R. per la categoria “stampa”.
De Luca, dopo una prima esperienza negli Stati Uniti, nel laboratorio del prof. Howard Green, il padre delle cellule staminali, si è dedicato alla terapia cellulare per il trattamento delle ustioni di terzo grado e di altre patologie degli epiteli di rivestimento. Oggi, ordinario di Biochimica, si concentra sull'implementazione della terapia genica per l'epidermolisi bollosa, con lo spin-off universitario Holostem – Terapie Avanzate.
Professor De Luca, come nasce il progetto Holostem?
“Holostem è nato dieci anni fa, nel 2008: l'anno precedente, per tutelare i pazienti in seguito alla comparsa sempre più numerosa di cliniche che proponevano terapie non regolamentate con cellule staminali per le più svariate patologie, la Comunità Europea emanò il Regolamento 1394/2007 che equiparava le terapie avanzate con le cellule staminali ai farmaci, prevedendo di poterle produrre solo in ambienti sterili e da parte di soggetti con competenze farmaceutiche. Così, dall'accordo fra l'Università di Modena e Reggio Emilia e Chiesi Farmaceutici, è nato lo spin-off Holostem – Terapie Avanzate, che ha messo insieme la componente scientifica e quella regolatoria, instaurando una partnership fra pubblico e privato che è stata poi presa a modello da altre realtà italiane e internazionali”.
Quali sono i principali risultati ottenuti nel corso degli anni?
“Uno dei nostri più importanti successi è stato, nel febbraio 2015, la registrazione di Holoclar, il primo farmaco approvato al mondo a base di cellule staminali, che può restituire la vista a persone che hanno subito gravi ustioni della cornea. Un risultato ottenuto in collaborazione con la prof.ssa Graziella Pellegrini, Coordinatrice della Terapia Cellulare del Centro di Medicina Rigenerativa, oltre che direttrice della Ricerca e Sviluppo di Holostem. Holoclar, testato su più di 300 occhi, è stato il primo prodotto formalmente a base di cellule staminali ad avere ottenuto dagli enti regolatori un'approvazione condizionale: è quindi già in commercio, ma è in corso anche un trial confermativo”.
Esistono tantissimi tipi di cellule staminali: il vostro Centro di quali si occupa?
“Noi lavoriamo solo su cellule autologhe, ovvero dello stesso paziente. In particolare, ci occupiamo di cellule staminali epiteliali, che includono sia quelle della pelle utilizzate per l'epidermolisi bollosa, sia cellule della cornea utilizzate per Holoclar, ma abbiamo altri progetti in via di realizzazione, come quello per la ricostruzione dell'uretra. Abbiamo avviato delle collaborazioni con diversi prestigiosi dipartimenti in Italia e in Europa; stiamo inoltre ampliando anche l'aspetto clinico, e il nostro prossimo obiettivo è la creazione di un Centro di riferimento internazionale per l'Epidermolisi Bollosa presso il reparto di Dermatologia del Policlinico di Modena”.
Il metodo utilizzato per salvare Hassan era mai stato sperimentato con successo?
“Sì, erano già stati pubblicati su riviste scientifiche i casi di due pazienti trattati con la nostra terapia genica: la prima applicazione in assoluto è stata nel 2005, sugli arti inferiori di un paziente, ed ha avuto degli ottimi risultati, con il pieno recupero della funzionalità dell'epidermide, confermata in un secondo paziente nel 2014. Ma il caso di Hassan è il più rilevante, sia perché si trattava di un fenotipo molto grave di epidermolisi bollosa, tanto che il trattamento fu autorizzato per uso compassionevole, sia soprattutto per l'estensione della superficie cutanea danneggiata, l'80%, molto superiore a quella degli altri due pazienti”.
Sarebbe stato possibile adottare la stessa tecnica per tentare di salvare Jonathan?
“Non mi è possibile dirlo, perché non conosco le condizioni cliniche in cui si trovava il ragazzo, né il suo quadro genetico. L'epidermolisi bollosa ha tantissime forme: quella di Hassan, ad esempio, che è una forma giunzionale, è una delle più rare. I criteri di inclusione nelle sperimentazioni, inoltre, sono molto stringenti e vanno valutati di volta in volta tenendo conto di numerosi parametri”.
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