Dottor Vincenzo Ronca

Al San Gerardo di Monza sviluppato un metodo per identificare alla diagnosi i pazienti con alto rischio di progressione della malattia

Monza – Sin dai tempi di Ippocrate, la medicina mira alla cura del paziente e non al semplice trattamento della malattia. Tuttavia, la maggior parte delle terapie viene scelta e allocata solo sulla base della diagnosi, senza tenere conto delle differenze interindividuali delle persone affette. La medicina di precisione è un differente paradigma di cure che ha l'obiettivo di personalizzare l’approccio diagnostico e terapeutico sulla base delle caratteristiche di ciascun malato. La possibilità di offrire il trattamento più appropriato sulla base delle caratteristiche del paziente e della malattia è oggi sempre più concreta, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie capaci di caratterizzare nel dettaglio il profilo genetico dei pazienti e il profilo individuale di espressione proteica, nonché grazie all’accesso a grossi volumi di dati clinici. La creazione di consorzi scientifici internazionali e la condivisione di dati clinici e genetici ha aperto le porte a questo modello anche per malattie rare come la colangite biliare primitiva (CBP).

I passi avanti verso un approccio personalizzato nella CBP sono stati compiuti attraverso la creazione e validazione di score prognostici che includono fattori clinici e biochimici, i quali permettono di individuare i pazienti con un alto profilo di rischio di progressione della malattia. “Come esempio di questo approccio, oggi sappiamo che circa il 30-40% dei pazienti hanno una risposta inadeguata all’attuale prima linea di terapia, l’acido ursodesossicolico (UDCA)”, spiega il prof. Pietro Invernizzi, direttore del Centro per le Malattie Autoimmuni del Fegato dell'Università di Milano-Bicocca presso l'Ospedale San Gerardo di Monza. “Numerosi studi scientifici prodotti recentemente mostrano come il livello di alcuni fattori biochimici abbiano un forte potere nel predire un fallimento terapeutico e quindi una progressione della malattia epatica verso la cirrosi e il trapianto”, prosegue Invernizzi. “Questi elementi sono gli enzimi epatici (come la fosfatasi alcalina, la bilirubina e le transaminasi), i fattori individuali come il sesso e l’età di insorgenza della malattia, ma anche quelli relativi alla gestione clinica, come il ritardo nell’inizio di una terapia adeguata”.

Oggi, grazie all’introduzione di una seconda linea di terapia, l’acido obeticolico, è possibile fornire un trattamento alternativo a coloro i quali sperimentano un fallimento terapeutico. “In questo contesto uno degli obiettivi del nostro Centro è quello di sviluppare nuovi strumenti clinici per poter identificare i pazienti ad elevato rischio di progressione che possano beneficiare di nuove terapie più efficaci precocemente nel corso di malattia”, sottolinea il dott. Vincenzo Ronca, ricercatore nello staff del prof. Invernizzi e primo autore di una estesa revisione di tutti i dati ad oggi disponibili su questo argomento, pubblicata sul Journal of Digestive Diseases. “In collaborazione con l'Università di Cambridge, il nostro gruppo ha recentemente sviluppato e validato uno score con il quale è possibile identificare già al momento della diagnosi chi presenta un alto rischio di fallimento al trattamento con UDCA e quindi di progressione di malattia”.

“Questo permetterebbe di offrire a pazienti ad elevato rischio di progressione una terapia di seconda linea più efficace e potenzialmente in grado di modificare il decorso di malattia se offerta precocemente”, osserva il dott. Marco Carbone, ricercatore presso lo stesso Centro e autore di importanti studi scientifici incentrati sul tema della personalizzazione delle terapie. “Tutto questo è in linea con il principio della medicina di precisione: offrire la terapia giusta al momento giusto... e al paziente giusto”.

Anche i pazienti affetti da malattie autoimmuni del fegato riconoscono l'importanza di questo approccio, come conferma Davide Salvioni, presidente di AMAF Onlus, l'associazione italiana a loro dedicata. “Noi pazienti affetti da CBP confidiamo molto nella ricerca scientifica che si occupa dello studio di queste patologie: la nostra associazione è nata soprattutto per supportare i ricercatori nel loro lavoro. Ci fa molto piacere apprendere che grazie al loro impegno e alla disponibilità di nuovi farmaci saranno possibili cure migliori centrate sulle diverse tipologie di paziente. Il nostro auspicio – conclude – è che al più presto possano esserci novità nelle cure anche per le altre malattie di cui ci occupiamo: l'epatite autoimmune (EAI) e la colangite sclerosante primitiva (CSP)”.

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