Uno dei criteri di esclusione più noti nella quasi totalità dei trials clinici è lo stato di gravidanza. Per questo motivo riscuote notevole interesse la descrizione di un caso clinico unico pubblicata su Transfusion and Apheresis Sciences da un gruppo di medici dell’Azienda Ospedaliera di Rimini in collaborazione con il dott. Ardissino, del Centro per la Cura e lo studio della Sindrome Emolitico-Uremica (HUS) presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. La Sindrome Emolitico-Uremica è una malattia molto rara che presenta un’incidenza annuale di 1 caso ogni 100.000 abitanti e colpisce sia i bambini che gli adulti.

Nel 90% dei casi (HUS tipica) la malattia insorge come conseguenza di un’infezione batterica, scatenata da organismi quali Escherichia Coli e Shigella Dysenteriae che producono una tossina in grado di danneggiare le cellule epiteliali e i vasi delle mucose intestinali, provocando diarree ed emorragie. Il restante 10% dei casi (HUS atipica) non è associato alla produzione di Shiga-tossine ma è legato alle alterazioni del complemento ed ha una base genetica molto più marcata, dal momento che spesso chi ne è colpito riporta casi di familiarità o storie di anemizzazione e morti neonatali non spiegate. La HUS atipica si caratterizza per la sua estrema letalità e per i pesanti strascichi che lascia a coloro che sopravvivono. In entrambe le sue manifestazioni, la sindrome emolitico-uremica si distingue clinicamente per la ricorrenza di tre sintomi: l’anemia emolitica microangiopatica, il ridotto numero di piastrine (piastrinopenia) e l’insufficienza renale acuta, la quale obbliga a ricorrere alla dialisi per supplire alle mancanze del rene quando questo è gravemente danneggiato.

Il 30-40% dei pazienti colpiti da HUS atipica rischia il decesso o sviluppa una patologia renale terminale già dopo la prima manifestazione clinica della malattia e il 65%, ad un anno dalla diagnosi, necessita di continuare al dialisi nonostante le corrette terapie. I pazienti affetti da HUS atipica sono spesso portatori di mutazioni in geni codificanti per il fattore H (CFH), per la proteina cofattore di membrana (MCP) e per il fattore I (CFI): tutte queste mutazioni possono amplificare l’attivazione indiscriminata del complemento, aggravando ulteriormente il danno endoteliale collegato alla trombosi.

Recentemente lo sviluppo di un anticorpo monoclonale (eculuzimab) in grado di inibire la porzione terminale del complemento ha prodotto risultati promettenti per il trattamento della malattia ma non è mai stato impiegato su donne in gravidanza prima del caso descritto dall’equipe medica romagnola.

La paziente protagonista del lavoro ha una ricca storia familiare legata alla malattia ed è essa stessa affetta da HUS atipica con mutazione genica in CFH, per la quale era in cura. Durante il periodo di follow-up la paziente ha riportato una gravidanza e, nonostante le sue condizioni fossero inizialmente buone, il peggioramento del quadro clinico (recidiva di emolisi e trombocitopenia) non ha lasciato alternative alla somministrazione del farmaco. Eculuzimab è stato ben tollerato, non ha causato effetti collaterali ed ha probabilmente salvato la vita alla paziente ed al suo bambino, venuto alla luce con parto cesareo e in buone condizioni di salute.

Esistono forme di HUS associate a gravidanze che si manifestano raramente e con complicanze pericolose ma questo caso, nella sua unicità, suggerisce la necessità di ricorrere entro breve tempo alla plasmaferesi che può essere successivamente rimpiazzata dal trattamento farmacologico.

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