Sono diversi i tentativi di trattare la forma più grave e più rara della malattia: dalla LDL aferesi agli anticorpi monoclonali, dal farmaco lomitapide alla terapia genica
Palermo – L'ipercolesterolemia familiare è un disordine genetico caratterizzato da livelli molto elevati di colesterolo LDL nel sangue, associati a un'alta incidenza di malattie cardiovascolari precoci. Nonostante i pazienti eterozigoti siano ancora scarsamente riconosciuti e trattati, oggi esiste una grande disponibilità di farmaci che consentono teoricamente la normalizzazione del colesterolo LDL in questa popolazione. I pazienti omozigoti, invece, hanno una forma di malattia più grave e più rara, caratterizzata da una scarsa risposta al trattamento ipolipemizzante convenzionale e spesso associata a prognosi sfavorevole anche in giovane età.
DUE REVISIONI SULLE OPZIONI TERAPEUTICHE
Due recenti studi hanno fatto il punto sui trattamenti a disposizione delle persone affette da ipercolesterolemia familiare omozigote: il primo, pubblicato sulla rivista Current Medicinal Chemistry da un team dell'Università di Palermo guidato dal prof. Maurizio Averna, ha riassunto le attuali conoscenze sul farmaco lomitapide. Il secondo, apparso sulla rivista Pharmacological Research, ha puntato l'obiettivo sulle terapie geniche e cellulari ed è stato condotto da un gruppo di studio internazionale di cui hanno fatto parte anche due italiani: il prof. Matteo Pirro e la dr.ssa Vanessa Bianconi, dell'Università di Perugia.
Nell'ipercolesterolemia familiare omozigote, gli elevati livelli plasmatici di colesterolo LDL portano all'instaurarsi di un accelerato processo di aterosclerosi e di eventi cardiovascolari in età precoce. Le mutazioni più frequenti che stanno alla base della malattia sono quelle a carico del gene codificante per il recettore delle LDL (LDLR); più rare sono quelle che coinvolgono i geni APOB e PCSK9. Le persone affette necessitano di una terapia ipolipemizzante basata sull’uso di statine, ezetimibe, inibitori PCSK9, sequestranti degli acidi biliari e niacina (questi ultimi due raramente utilizzati), associata a una dieta a basso contenuto lipidico e a procedure di aferesi delle lipoproteine a cadenza settimanale o bisettimanale.
L'AFERESI DELLE LIPOPROTEINE
“La tecnica dell'LDL aferesi rappresenta l’approccio di prima linea nei pazienti omozigoti”, spiega il prof. Maurizio Averna, responsabile dell’U.O. di Medicina Interna e Dislipidemie Genetiche del Policlinico “Paolo Giaccone” di Palermo. “Tuttavia, questa tecnica riduce solo temporaneamente i livelli plasmatici di colesterolo LDL (fino al 60% dei valori registrati prima della procedura), ma circa la metà dei pazienti va incontro a un rebound ai valori pre-aferetici anche se si incrementa la frequenza delle sedute. Inoltre, non è sempre disponibile in tutti i Paesi, presenta dei costi non indifferenti, richiede l’impiego di personale specializzato e l’utilizzo a lungo termine di accessi vascolari, con le relative problematiche di gestione. Pertanto, nella maggior parte dei casi, tali pazienti, a fronte di un trattamento ipolipemizzante convenzionale intenso, con elevate dosi di statine ad alta efficacia in associazione a ezetimibe e in combinazione o meno all’aferesi, non raggiungono il target di colesterolo LDL. Questo target corrisponde a meno di 100 mg/dL in soggetti adulti, in prevenzione primaria, e meno di 70 mg/dL in soggetti adulti affetti da eventi cardiovascolari, in prevenzione secondaria”, prosegue Averna.
“Ne conseguono eventi cardiovascolari precoci e la progressione del danno aterosclerotico. Da ciò è nata la necessità di nuove strategie terapeutiche per il trattamento a lungo termine dei pazienti omozigoti, tra cui gli anticorpi monoclonali anti-PCSK9 (alirocumab, evolocumab), che risultano però inefficaci in soggetti omozigoti portatori di mutazioni con ridotta attività residua (inferiore al 2%) del recettore delle LDL. Altre opzioni sono l’oligonucleotide antisenso anti Apo-B mipomersen, che non è stato approvato dall’EMA e risulta prescrivibile solo negli Stati Uniti, l’inibitore della proteina di trasferimento degli esteri del colesterolo (CETP) anacetrapib, ancora in fase di valutazione, e la lomitapide”.
LA LOMITAPIDE: PRO E CONTRO
La lomitapide (Lojuxta in Europa e Juxtapid negli Stati Uniti), sviluppata da Aegerion e distribuita da Amryt, è una piccola molecola, inibitore della proteina di trasferimento microsomiale dei trigliceridi (MTP). Il farmaco è stato approvato dalla Commissione Europea nel luglio 2013, per l'uso in pazienti adulti affetti da ipercolesterolemia familiare omozigote come terapia adiuvante di una dieta a basso tenore di grassi e di altri farmaci ipolipemizzanti, con o senza aferesi delle lipoproteine a bassa densità (LDL).
“L’efficacia e la sicurezza della lomitapide sono stati ampiamente studiati e confermati in studi clinici di Fase II e III e il suo utilizzo nella pratica clinica ha mostrato una riduzione superiore al 50% dei livelli plasmatici di colesterolo LDL. L’inibizione di MTP indotta dalla lomitapide determina una riduzione della secrezione epatica delle lipoproteine a bassissima densità (very low density lipoproteins, VLDL) e dei chilomicroni a livello intestinale”, sottolinea Averna. “Per tale motivo il farmaco può indurre disturbi gastrointestinali quali nausea, crampi addominali, diarrea e steatorrea (che si accentuano in occasione di pasti ad alto contenuto di grassi, superiore al 20%) e steatosi epatica con relativo incremento degli indici di funzionalità epatica, anche se generalmente, nella 'real life', la molecola è ben tollerata e gli eventi avversi si riducono gradualmente nella fase di titolazione fino alla scomparsa una volta raggiunta la dose di mantenimento”.
Studiare il farmaco nell'ambito della real life, ovvero nella vita reale, nella pratica clinica quotidiana, è l'intento del registro europeo LOWER e degli studi post-marketing condotti in quest'ambito, che saranno utili per valutare gli esiti a lungo termine nei pazienti in trattamento. La lomitapide non è raccomandata in gravidanza: allo stato attuale non ci sono dati in letteratura sul suo uso in donne gravide, e quello che si conosce riguarda un aumentato rischio teratogeno comprovato in studi su animali. Sarà interessante, inoltre, valutare il suo possibile utilizzo in soggetti omozigoti in età pediatrica.
GLI ALTRI APPROCCI AL TRATTAMENTO
Un'ulteriore alternativa terapeutica per i pazienti omozigoti è il trapianto di fegato. Tuttavia, la bassa probabilità di trovare un donatore adatto, i rischi dell'intervento chirurgico e la necessità di un trattamento a vita con farmaci immunosoppressori dopo l'operazione sono le ragioni per cui sono stati eseguiti pochissimi trapianti di fegato per trattare questi pazienti. Così, negli ultimi anni, gli scienziati hanno tentato diverse altre strade per correggere le mutazioni del gene LDLR, causa della malattia. Il team internazionale composto fra gli altri dal prof. Matteo Pirro e dalla dr.ssa Vanessa Bianconi, della Struttura Complessa di Medicina Interna dell'Università di Perugia, hanno riassunto i tentativi in vitro, ex vivo e in vivo condotti utilizzando diversi metodi di trasferimento e modifica del gene.
La terapia genica è una nuova, potente, strategia per correggere in modo permanente i geni del recettore LDL difettosi. Generalmente, il termine si riferisce alla sostituzione del gene difettoso che causa una malattia specifica con l'utilizzo di una sequenza intatta dello stesso gene. Negli ultimi decenni sono stati fatti diversi tentativi per esplorare la fattibilità della terapia genica come nuovo approccio per il trattamento dell'ipercolesterolemia familiare. Ispirati dalla riuscita correzione metabolica nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato, gli scienziati hanno puntato sulla modifica del materiale genetico degli epatociti. Un efficace trasferimento dei transgeni e la loro duratura espressione e regolazione fisiologica sono gli obiettivi principali di una terapia genica di successo: si tratta di fattori molto importanti, perché diversi studi hanno rivelato che l'espressione non fisiologica e incontrollata del transgene potrebbe causare l'accumulo di quantità tossiche di cristalli di steroli. Sembra inoltre che per ottenere l'espressione fisiologica del gene del recettore LDL negli epatociti dei pazienti sia necessario il trasferimento dell'intero locus con le sue regioni regolatorie: un frammento di genoma relativamente grande. È noto che i sistemi di trasferimento virale in vivo siano più efficienti dei metodi non virali, ma la loro capacità di provocare reazioni immunitarie nell'ospite è un fattore limitante per il loro uso. I sistemi basati sui virus adeno-associati (AAV), invece, hanno una bassa immunogenicità; tuttavia, non riescono a trasferire grandi frammenti di DNA, e ciò ne limita l'applicazione.
Altri tentativi hanno riguardato la nuova tecnologia di editing genetico CRISPR/Cas9, che ha mostrato risultati promettenti negli studi condotti sugli animali; alcuni scienziati hanno tentato un approccio anche con le cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), ma sono necessari ulteriori studi per poter utilizzare questa strategia sull'uomo. Infine, è stato dimostrato che il gene LDLR e altri geni responsabili dell'ipercolesterolemia familiare sono controllati da diversi microRNA: in futuro potrebbe quindi esserci la possibilità di ottenere un effetto terapeutico da strategie di RNA interference.
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