Filipponi (SISQT): “Nel nostro paese il costo di un paziente trapiantato di fegato e vivente si aggira sui 120mila euro circa”

In occasione del 4° congresso della Società Italiana per la Sicurezza e la Qualità dei Trapianti (SISQT) appena svoltosi a Milano, pubblichiamo l’intervista a Franco Filipponi, presidente SISQT, Ordinario di Chirurgia Generale dell'Università di Pisa, Direttore della UOC di Chirurgia Epatica e dei Trapianti di Fegato della AOU Pisana.

Alla fine del 2011 è diventata effettiva la manovra che ha tagliato per oltre 3 milioni di euro, circa il 70 per cento,  i fondi destinati alle regioni  per la rete dei trapianti. Come si conciliano le esigenze economiche del SSN con la complessità organizzativa del sistema trapianti?
Il trapianto è un terapia salva vita che permette la sopravvivenza di tante persone, circa 3.000 ogni anno solo in Italia. Questo è un valore in sé per sé ed è chiaro che lo Stato non possa ridurre il beneficio trapiantologico ad un semplice calcolo. Tuttavia non possiamo sottovalutare le difficoltà economiche che tutti i paesi stanno affrontando e che ci obbligano, a fronte di  una carenza di risorse, a ridisegnare le attività di donazione e trapianto affrontando ora più che mai il problema della sostenibilità.
D’altra parte i progressi tecnici conseguiti e l’introduzione di nuove terapie farmacologiche hanno prodotto un tangibile miglioramento dei risultati delle attività di trapianto, ma hanno fatto anche lievitare gli oneri economici per la nostra società. Da tempo, quindi l’individuazione dei costi, la definizione di modelli per il loro calcolo, la valutazione delle ricadute socio-economiche sono diventati temi di grande importanza per la razionalizzazione del sistema trapiantologico. Per questo motivo è necessario ponderare con attenzione le scelte da intraprendere per stabilire se il modo con cui stiamo lavorando oggi non comprometterà la capacità delle generazioni future di continuare a fare trapianti.

Malgrado i tagli, i fondi rimasti continuano ad essere destinati alla “sicurezza” dei trapianti. E’ questa l’arma principale per assicurare un’offerta sanitaria appropriata ed efficace e per mantenere viva la pratica dei trapianti nei prossimi decenni?
La sicurezza è fondamentale perché significa definire le regole per garantire l’affidabilità del sistema, possibilmente anche in un’ottica di contenimento dei costi diretti e indiretti. Per ottenere questo tuttavia è necessario mettere in atto dei nuovi processi per riorganizzare l’assistenza al paziente, in modo che essa sia precoce, tempestiva e permanente ed abbia quindi un impatto ridotto sul consumo delle risorse disponibili. In poche parole si tratta di portare al trapianto pazienti possibilmente in buon compenso, prima cioè che siano sottoposti al degrado fisico e al trauma psicologico che ne deriva dai casi troppo tardivi: tanto più malato è il paziente, tanto più gravi e numerose sono le patologie concomitanti da cui è affetto, maggiore è il dispendio di risorse umane, economiche e strutturali necessarie per curarlo.
Il secondo passo, non meno complesso, che si dovrà compiere è la ristrutturazione della stessa rete di assistenza sanitaria, con un più efficace coordinamento tra servizi primari (es. medici di medicina generale) e strutture di alta specialità, tra il territorio e l’ospedale, per assicurare al paziente il  percorso più veloce di proposizione al trapianto, quindi il “tempo giusto” per la messa in lista di attesa.

E’ possibile che il prolungamento dei tempi per la messa in lista sia dovuto al fatto che il trapianto è  generalmente considerato una soluzione estrema?

Pensare ancora oggi al trapianto come ad una “soluzione estrema” per “malati estremi” è un principio incomprensibile oltre che fallimentare, sia in termini di sopravvivenza del paziente e dell’organo trapiantato, sia in termini di costi sanitari e sociali. Lo documenta ampiamente anche la letteratura internazionale: i pazienti più gravi sottoposti a trapianto non solo costano di più, ma hanno anche maggiori complicanze, risultati peggiori, tempi di riabilitazione più lunghi che ostacolano il reintegro sociale e lavorativo incidendo così pesantemente sulla qualità di vita post-trapianto del paziente. Se la medicina dei trapianti vuole mantenere il suo valore umano e scientifico anche nelle future generazioni deve essere più integrata in termini di forze assistenziali e attuare un’analisi critica del consumo e dell’allocazione dei mezzi economici e non.

Quanto costa un trapianto in Italia?
Il trapianto di fegato è una cartina tornasole per la valutazione dei costi in ambito trapiantologico: è al secondo posto in termini di impatto economico dopo quello di polmone, ma lo precede per la numerosità degli interventi eseguiti ogni anno (in Italia si effettuano una media di circa 1.000 trapianti di fegato l’anno, contro i 100 circa di polmone).  Nel nostro paese il costo di un paziente trapiantato di fegato e vivente si aggira sui 120mila euro circa, di questi il 70 per cento è rappresentato dai costi sanitari diretti tra cui l’intervento chirurgico, l’ospedalizzazione e le terapie farmacologiche. Recenti studi hanno dimostrato, tuttavia, che il costo del paziente trapiantato aumenta in relazione al suo stato di gravità clinica al momento del trapianto (valutabile attraverso il punteggio MELD, che varia da 6 a 40): più il suo MELD è alto, più i costi pre e post-trapianto aumentano. Per fare un esempio, un paziente che arriva al trapianto di fegato con una malattia epatica cronica e un MELD inferiore o uguale a 25 ha un costo – calcolato sui 5 anni post trapianto – di 228.434 euro, contro un paziente con MELD inferiore a 15 che ha un costo di 169.541 euro. Ne consegue un costo-utilità meno favorevole valutato rispettivamente in 59.894 euro/QUALY per il primo contro 41.769 euro/QUALY per il secondo. Il rapporto gravità-costo è chiaramente applicabile a qualsiasi tipo di trapianto, ma per il trapianto di fegato la questione è molto più rilevante in quanto le patologie che compromettono la funzione dell’organo, in particolare l’epatite C, sembrano destinate ad aumentare con un picco previsto intorno al 2020. Come è noto l’epatite C è la causa principale di trapianto di fegato (30-40% dei trapianti epatici) e purtroppo l’Italia, con circa 2 milioni di epatopatici cronici, detiene il primato europeo di questa grave patologia ed è, conseguentemente, ai primi posti per trapianti epatici.

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