Conoscere l'esatta mutazione del paziente è indispensabile per individuarne i portatori nella famiglia

FIRENZE – La ricerca italiana mette a segno un altro goal nella lotta alle malattie rare. Sotto la lente dell’equipe guidata dal dottor Lorenzo Ferri, con i collaboratori del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Firenze e dell'Unità di Neurologia dell'Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, questa volta è finita la sindrome di Barth. Si tratta di una rara patologia infantile che si manifesta con cardiomiopatia, ipotonia, ritardo nella crescita e neutropenia, cioè diminuzione dei globuli bianchi, solitamente accompagnati da aciduria 3-metilglutaconica, patologia a carico del metabolismo degli amminoacidi.

L'aspetto più grave della sindrome è l'insufficienza cardiaca, talvolta accompagnata dalla non compattazione del ventricolo sinistro: fino a 10 anni fa la maggior parte dei pazienti non raggiungeva i 4 anni di vita, oggi,  grazie all'avanzamento delle tecniche diagnostiche, la mortalità si è spostata verso la pubertà.

La sindrome di Barth è associata al cromosoma X ed ereditata in modo recessivo, pertanto colpisce solo gli individui di sesso maschile che ereditano il gene malato per via materna, mentre le femmine possono esserne portatrici sane. La causa esatta è una mutazione del gene TAZ, che codifica per la tafazzina, proteina che conferisce la struttura corretta alle cardiolipine, importanti componenti della membrana mitocondriale. Al momento le mutazioni conosciute a carico del gene TAZ sono circa un centinaio e l'unico metodo diagnostico sicuro è rappresentato dal sequenziamento del gene, molte mutazioni sono tuttavia ancora sconosciute.

I ricercatori fiorentini ne hanno approfondito l’origine genetica  arrivando a scoprire  5 nuove mutazioni in 6 soggetti malati non consanguinei: lo studio è stato pubblicato sull'Orphanet Journal of Rare Diseases.
Le mutazioni scoperte sono di vario tipo: alcune sono mutazioni puntiformi, il gene sano e quello affetto differiscono cioè per un solo nucleotide, altre invece riguardano la delezione o il riarrangiamento di vaste regioni geniche, promossi probabilmente dalla ricombinazione di zone non omologhe del cromosoma.
I ricercatori hanno poi individuato i punti precisi in cui è avvenuta la rottura del cromosoma, al fine di individuare la stessa mutazione nelle famiglie dei pazienti, in particolare nelle eterozigoti portatrici, che potrebbero trasmettere la patologia alle generazioni successive.
In 5 pazienti su 6, oltre ad aciduria 3-metilglutaconica e neutropenia, è stata osservata acidosi lattica, che potrebbe essere quindi un marcatore biochimico utile per la corretta diagnosi.

“La diagnosi precoce è un prerequisito per una terapia efficace e per la prevenzione delle crisi dovute a sepsi” concludono gli autori: “Inoltre, la caratterizzazione molecolare dei pazienti affetti dalla sindrome di Barth è fondamentale per la diagnosi prenatale e al fine di evitare la ricorrenza della malattia nella stessa famiglia”.

 

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