Se da una parte è più facile rispondere senza l’imbarazzo del rapporto diretto, dall’altra il paziente non ha nessuno a cui chiedere chiarimenti sulle domande

Chiunque conosca anche solo in minima parte social network come Facebook, Twitter o Instagram potrebbe confermare che ora più che mai il loro ruolo è equivalente a quello che, negli anni ’30, fu attribuito alla televisione: allora le notizie e lo spettacolo arrivavano direttamente nel salotto di casa in ogni istante, si potevano vedere eventi accaduti in città lontane, la circolazione di informazione era più veloce e non più strettamente legata a luoghi di raccolta, come le piazze: il mondo diventava più piccolo. Oggi, grazie ai social network ognuno di noi è collegato direttamente con amici e conoscenti in ogni istante e ovunque sul pianeta. Facebook raggiunge quasi 2 miliardi di iscritti ed il volume di utenti di Twitter e Instagram è cresciuto in maniera vertiginosa negli ultimi anni; si tratta di strumenti facili da utilizzare e adattabili alle esigenze del fruitore perché da una parte risultano in grado di offrire momenti di frivolezza e spensieratezza, dall’altra possono rivelarsi un utile veicolo di informazioni e una piattaforma di espansione e visibilità in ambito lavorativo. Mai come adesso la teoria dei “sei gradi di separazione” trova applicazione e, nonostante sorgano continuamente dubbi sulle derive sociali che questo nuovo trend ha innescato e sui limiti etici e legali che un social network deve avere, la gente ama rimanere “connessa” e perennemente aggiornata.

Questo offre uno spunto di riflessione di notevole peso in relazione alle malattie rare. In un articolo pubblicato sulla rivista Orphanet Journal of Rare Diseases, William Davies, ricercatore presso la Cardiff University (UK), si interroga sulla validità e sull’utilità di questi nuovi strumenti nell’approccio alle malattie rare. Che si tratti di patologie con un’eziologia ben definita ma con un fenotipo vario e sovrapponibile a quello di altre sindromi o di patologie che insorgono con sintomi chiari ed evidenti ma delle quali, purtroppo, non sono note le cause, le malattie rare rappresentano un soggetto interessante da declinare nell’ambito dei nuovi mezzi di comunicazione per due ragioni: innanzitutto, la loro diffusione è molto più ristretta di quella di altre malattie e, in secondo luogo, i soggetti colpiti hanno la necessità di entrare in contatto tra di loro e con gli specialisti che possano seguirli nel loro percorso terapeutico.

Prendendo a modello l’esperienza ottenuta con i pazienti affetti da Ittiosi recessiva legata all'X ai quali è stato proposto un questionario online per la raccolta di dati sugli aspetti psichiatrici e clinici della malattia, Davies si concentra sui vantaggi e sugli svantaggi dell’uso di questionari pubblicizzabili attraverso i social. I questionari per la raccolta dati pubblicabili online devono avere un’architettura solida, basata su modelli validati ed accettati, devono essere chiari e semplici e non prevedere una lunghezza che ecceda i 40 minuti. Inoltre, grazie all’opportunità di mantenere l’anonimato consentono di rispondere anche a domande che in una seduta frontale potrebbero mettere in imbarazzo il paziente. Ricorrendo a questo tipo di strumenti, è possibile raccogliere un consistente volume di informazioni sulla malattia e sui suoi sintomi, sull’efficacia e la compliance delle terapie e sui loro potenziali effetti avversi. La celerità d’analisi permette di analizzare dati utili in tempi ristretti e la diffusione a ventaglio garantisce un riscontro su basi culturali, sociali e geografiche piuttosto eterogenee. Inoltre, i pazienti – specie quelli affetti da malattie rare – sono molto predisposti a collaborare, quando lo sforzo richiesto non è eccessivo e il tempo richiesto non supera una certa soglia. D’altro canto, è bene prendere con cautela le informazioni non supportate da un’analisi clinica oggettiva, specialmente in relazione ai sintomi e alle risposte ai trattamenti. Non è da escludere che, in sede di compilazione, i pazienti possano sbagliare (volontariamente o involontariamente) e, soprattutto, l’approccio tramite la rete fornisce informazioni generiche, potenzialmente dubbie, mentre quello tradizionale, è più approfondito e riesce con maggior facilità a mettere in relazione il quadro clinico con quello sociale. Oltre a ciò, il soggetto che compili il questionario potrebbe trovarsi in difficoltà di fronte a termini tecnici dal significato ignoto o non del tutto chiaro e ricorrere così a fonti di informazione non controllate e, pertanto, poco attendibili. Tutto ciò può condurre a errate valutazioni di parametri fondamentali che, insieme alla difficoltà di reperire gruppi di controllo attendibili, sollevano molti interrogativi sull’utilità di questi mezzi.

Il ricorso a questionari anche tramite social network ha certamente delle limitazioni ma può essere utile per raccogliere informazioni soprattutto sui fenotipi delle malattie e sulle difficoltà di tutti i giorni dei pazienti e dei loro famigliari. La nascita di nuovi portali di informazione come Eurordis, Orphanet e ClincalTrials ha costituito un notevole passo avanti nell’avvicinamento del mondo della ricerca scientifica ai pazienti affetti da malattie rare che corrono il rischio di trovarsi spesso spaesati e isolati e l’instancabile opera delle Associazioni per diffondere informazioni, anche attraverso applicazioni e community, e far conoscere i centri di trattamento specializzati si sta rivelando un supporto essenziale sia per favorire diagnosi più celeri che per fornire feedback sui trattamenti ai clinici. È d’obbligo che le reti diventino via via più fitte e ricche di nuove maglie, permettendo così una sempre più libera circolazione di dati e che si lavori per costituire il clima di aggregazione necessario per combattere queste malattie.

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