dott.ssa Lidia de FilippisUno studio italiano ha raggiunto una maggiore comprensione della patogenesi della malattia

San Giovanni Rotondo (Foggia) – Non un nuovo farmaco sperimentale, ma un comune antiossidante come la vitamina E potrebbe essere efficace nel rallentare la mucopolisaccaridosi di tipo II, o sindrome di Hunter. Sono i risultati emersi da uno studio tutto italiano, pubblicato sulla rivista Cell Death and Disease. Una ricerca che ha portato a conoscere meglio i meccanismi di questa rara malattia metabolica da accumulo lisosomiale, come spiega la dr.ssa Lidia De Filippis, autrice dello studio insieme al prof. Angelo Vescovi (entrambi della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo) e ad altri nove colleghi.

“La mucopolisaccaridosi di tipo II è associata al deficit o al malfunzionamento di un enzima, che provoca un disordine sistemico: alcuni metaboliti non vengono eliminati correttamente e si accumulano, la cellula si intossica e muore. Alla nascita, i bambini sembrano normali ma progressivamente la mancanza dell'enzima causa l'accumulo di mucopolisaccaridi che divengono rilevabili nelle urine e sintomi come dismorfismi facciali, epatosplenomegalia, danni al sistema nervoso centrale e ritardo mentale più o meno grave diventano evidenti”, sottolinea la ricercatrice.

La terapia sostitutiva enzimatica può tamponare in parte la mancanza dell'enzima a livello sistemico, ma non ha effetti sul sistema nervoso centrale, dal momento che l'enzima non è in grado di attraversare la barriera ematoencefalica. Ne consegue che nelle forme più gravi l'aspettativa di vita è molto ridotta e supera raramente i 20 anni”.

In una prima pubblicazione del 2013, lo staff della dr.ssa De Filippis aveva utilizzato cellule staminali neurali isolate dal cervello di topi malati di MPSII per riprodurre la malattia in vitro. La coltura di tali cellule e lo studio comparativo con quelle derivanti da topi normali aveva consentito di ripercorrere e caratterizzare le tappe della neurogenesi durante lo sviluppo della MPSII. E qui ci fu la prima scoperta: il ruolo degli astrociti, cellule cerebrali a forma di stella con una vasta gamma di funzioni, tra le quali quella trofica per le cellule neuronali e quella neuroinfiammatoria.

Confrontando diversi campioni (le cellule staminali, il tessuto cerebrale murino e il tessuto cerebrale di un paziente, un campione autoptico di un bambino proveniente dagli Stati Uniti) ci si accorse che la morte neuronale avveniva in un momento successivo, preceduto dall'intossicazione gliale particolarmente a carico degli astrociti.

Nella seconda pubblicazione, uscita poche settimane fa, le cellule staminali neurali di topi sani e malati sono state selettivamente indirizzate a diventare astrociti, dando origine ad astrociti rispettivamente sani e malati poi co-coltivati con neuroni sani per 40 giorni.

“Progressivamente, solo i neuroni coltivati insieme ad astrociti malati manifestavano dei gravi segni di sofferenza fino alla morte cellulare: un processo che evidenziava il contributo della intossicazione degli astrociti alla morte neuronale e anche la presenza di un forte danno ossidativo. L'analisi dei tessuti cerebrali sia murini che umani ha consentito di confermare le nostre ipotesi e anche di evidenziare lo svilupppo della reazione neuroinfiammatoria associata a danno ossidativo come precedente alla degenerazione gliale”, prosegue la dr.ssa De Filippis.

“A quel punto, abbiamo ripetuto l'esperimento di co-coltura dei neuroni sani con astrociti malati in condizioni di scarsità di ossigeno e abbiamo notato un fatto rilevante: il processo neurodegenerativo rallentava. Poiché non è pensabile un trattamento dei pazienti in condizioni ipossiche, abbiamo sperimentato un approccio terapeutico antiossidante con la vitamina E, che ha invertito l'effetto tossico sui neuroni messi in coltura. Questa sicuramente non è la cura per la mucopolisaccaridosi di tipo II, ma un'azione terapeutica efficace in grado di rallentare la malattia”.

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