Il prof. Maurizio Scarpa spiega le caratteristiche della malattia e le opzioni terapeutiche attualmente disponibili
“L'alfa-mannosidosi è una malattia ereditaria da deposito lisosomiale, caratterizzata da immunodeficienza, anomalie facciali e scheletriche, deficit uditivo e cognitivo. Si presenta in circa un neonato ogni 500.000 e, fino a poco tempo fa, era una patologia orfana di cure”, afferma il professor Maurizio Scarpa, direttore del Centro di Coordinamento Regionale dell’Azienda Sanitaria Universitaria del Friuli Centrale per le Malattie Rare e coordinatore della Rete di Riferimento Europea MetabERN, dedicata alle malattie metaboliche.
“L'alfa-mannosidosi è una malattia a trasmissione autosomica recessiva: questo significa che il bambino eredita la patologia solo quando entrambi i genitori sono malati o portatori sani della mutazione del gene MAN2B1”, spiega Scarpa. “Questo specifico difetto genetico provoca una carenza dell’alfa-mannosidasi, una proteina con attività enzimatica normalmente deputata alla degradazione degli oligosaccaridi (zuccheri)”. L’accumulo di tali sostanze, associato ad altri meccanismi patofisiologici ancora non del tutto noti, risulta tossico per le cellule e porta al fenotipo clinico della malattia.
“La diagnosi - prosegue il prof. Scarpa – può essere fatta in maniera relativamente semplice, quantificando l'aumento della secrezione urinaria di oligosaccaridi ricchi in mannosio. Successivamente a questa determinazione - indicativa, ma non diagnostica - si procede con l’analisi enzimatica per confermare il sospetto e, infine, si identificano le mutazioni genetiche tipiche della malattia”.
Nonostante la semplicità del metodo diagnostico, l’alfa-mannosidosi resta una patologia insidiosa e dal complicato riconoscimento. Al suo esordio, infatti, i principali sintomi (difficoltà motorie, frequenti infezioni delle vie aeree e dell’orecchio, lieve ritardo cognitivo e deficit dell’udito) sono aspecifici e difficili da collegare tra loro. Di conseguenza, i ritardi diagnostici sono assai frequenti e fanno sì che i piccoli pazienti vadano incontro a danni progressivi, direttamente proporzionali al tempo atteso per l’identificazione della malattia. “Il ruolo del pediatra, o del medico curante, quindi, è fondamentale per formulare un sospetto diagnostico e indirizzare il paziente verso un centro specializzato”, sottolinea Scarpa.
Come tutte le malattie lisosomiali, anche l’alfa-mannosidosi ha diversi gradi di severità a seconda della forma clinica:
- il tipo 1 è la forma più lieve. A causa della lenta progressione, viene spesso diagnosticata dopo i dieci anni di vita o, addirittura, in età adulta. Le anomalie scheletriche, qualora presenti, sono estremamente modeste e non vi è coinvolgimento neurologico;
- il tipo 2 presenta un livello di gravità intermedio e viene generalmente sospettata tra il quinto e il decimo anno di vita del bambino. Anche in questa forma clinica la progressione della patologia è piuttosto lenta, ma sono presenti anomalie scheletriche e, a partire dai vent’anni, si possono riscontrare alterazioni neurologiche e atassie;
- il tipo 3, infine, è la forma più severa. Viene diagnosticata subito dopo la nascita perché presenta una sintomatologia evidente: alterazioni scheletriche, facies (aspetto ed espressione del viso caratteristici), miopatie e difetti neurologici importanti, a cui si aggiunge, a volte, la compromissione di fegato, milza e apparato cardiovascolare.
Le tre forme cliniche della patologia sono identificate sulla base della gravità e del tempo di comparsa dei sintomi, ma spesso non sono chiaramente distinguibili nella pratica clinica.
Nel luglio 2018, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha approvato la terapia enzimatica sostitutiva velmanase alfa, volta a rallentare le complicanze non neurologiche dell’alfa-mannosidosi e, a settembre di quest’anno, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha riconosciuto la rimborsabilità in Italia del medicinale, prodotto da Chiesi Farmaceutici. Il farmaco si somministra settimanalmente per via endovenosa ed è in grado di degradare gli oligosaccaridi, facendo le veci dell’enzima mancante a causa della malattia. “Al momento è l’unica terapia indicata per la malattia”, chiarisce il prof. Scarpa. “È stato tentato il trapianto di midollo in alcuni pazienti, con l’obiettivo di prevenire il decadimento cognitivo e di ottenere il miglioramento generale dei sintomi, ma i risultati non sono stati molto confortanti. Soprattutto se somministrata precocemente – conclude l’esperto – la terapia enzimatica sostitutiva permette un drastico rallentamento nella progressione della patologia con conseguente miglioramento delle condizioni generali del paziente e della qualità della vita”.
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