Neurologia

Il dott. Giuseppe Di Fede (Milano): “Parliamo di una patologia complessa e multifattoriale: la sola riduzione delle placche amiloidi potrebbe non bastare” 

Ci sono patologie neurologiche, fra cui l’Alzheimer, a cui l’aggettivo “incurabile”, purtroppo, rimane da sempre abbinato, con la conseguenza che la terapia più auspicata - una rigenerazione del tessuto nervoso - finisce per sembrare un sogno che solo personaggi come il Doctor Strange della Marvel sembrano poter realizzare. Senza dubbio, la riaccensione delle sinapsi costituisce un orizzonte ancora lontano; cionondimeno, negli anni più recenti, i ricercatori hanno messo a punto terapie che, a differenza dello standard di cura attuale, promettono di incidere sul decorso della malattia. Si tratta degli anticorpi monoclonali, la cui sfida parrebbe vinta ma, come si sa, proprio “quando si è vicini alla meta il terreno comincia a franare sotto i piedi”. Fuor di metafora, abbiamo cercato di fare il punto su pro e contro di tali innovative soluzioni terapeutiche per la malattia di Alzheimer, ricapitolandone il percorso verso la commercializzazione.

Per farlo ci siamo rivolti al dott. Giuseppe Di Fede, Responsabile del Laboratorio di Genetica e Biochimica delle Demenze presso l’Istituto Besta di Milano, con il quale abbiamo recentemente approfondito il tema della demenza frontotemporale. Nel caso della malattia di Alzheimer il tema caldo è quello degli anticorpi monoclonali, sostanze di sintesi con la capacità di distruggere in maniera specifica le cellule tumorali; difatti, la caratteristica degli anticorpi in circolo nell’organismo è di essere dotati di vari tipi di recettori, cioè di quelle strutture capaci di riconoscere gli antigeni sulla superficie di virus e batteri. Normalmente è proprio la diversità antigenica a creare un ampio spettro di protezione, ma nel caso degli anticorpi monoclonali la maggiore efficienza è legata a una relazione unica: un anticorpo monoclonale riconosce uno specifico recettore sulla superficie della cellula tumorale e vi si aggancia in maniera mirata, distruggendo la cellula stessa. Gli anticorpi monoclonali sono attualmente impiegati contro diverse tipologie di tumore ma sono stati studiati anche contro certe malattie neurodegenerative.

Nell’Alzheimer gli anticorpi monoclonali sono perlopiù diretti contro la proteina beta-amiloide, una delle principali protagoniste della patogenesi di questa forma di demenza”, spiega il dott. Di Fede. “Di questa categoria di farmaci, i due più discussi e conosciuti sono aducanumab e lecanemab, dei cui risultati clinici si è abbondantemente parlato nei mesi scorsi e di cui si continua a parlare in seguito all’approvazione ricevuta da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense”. 

ADUCANUMAB 

Il 7 giugno 2021, la FDA ha concesso il via libera alla messa in commercio di aducanumab, che è diventato così il primo anticorpo monoclonale ad essere ufficialmente approvato per il trattamento della malattia di Alzheimer. “Si tratta di una molecola progettata per ridurre gli accumuli di beta-amiloide nel cervello delle persone affette da demenza di Alzheimer”, afferma Di Fede. Nel 2007, l’azienda Neurimmune, che ha originariamente ideato aducanumab, ha ceduto i diritti del farmaco a Biogen (che lo sta attualmente sviluppando insieme ad Eisai) e nel 2011 ha avuto inizio la sperimentazione di Fase I, a cui è seguito, nel 2012, uno studio di Fase Ib per valutarne la sicurezza e la tollerabilità. “Successivamente, sono stati progettati due studi clinici di Fase III, randomizzati, controllati con placebo e destinati a pazienti con Alzheimer di grado lieve”, prosegue il neurologo milanese. “Si tratta degli studi ENGAGE ed EMERGE, nati per confrontare l’efficacia clinica di differenti dosi di aducanumab in una popolazione di circa 3000 pazienti. Purtroppo, i risultati preliminari delle due sperimentazioni cliniche sono apparsi contrastanti: infatti, in base alle conclusioni di EMERGE, aducanumab si è rivelato in grado di rallentare il declino cognitivo dei malati, mentre i risultati prodotti nello studio ENGAGE non hanno raggiunto l’endpoint primario”. Tuttavia, in entrambi gli studi il farmaco si è mostrato in grado di diminuire l’accumulo della proteina beta-amiloide nel cervello. “Sono anche emersi effetti collaterali non trascurabili, in quanto in circa il 40% dei pazienti trattati la risonanza magnetica ha messo in evidenza edema focale cerebrale (ARIA-E, Amyloid-Related Imaging Abnormalities-Edema), cioè piccoli stravasi di fluidi dai vasi sanguigni al tessuto cerebrale circostante”, precisa Di Fede. “In una frazione più ristretta di pazienti è stata riscontrata la presenza di ARIA-H (Amyloid-Related Imaging Abnormalities-Haemorrages), cioè di micro-emorragie cerebrali che, in certi casi, si sono rivelate gravi. Il meccanismo con cui si verificano questi eventi non è sufficientemente chiaro ma si ipotizza che il legame tra gli anticorpi monoclonali e la proteina beta-amiloide, situata sulle pareti dei vasi cerebrali, induca un danno attraverso una stimolazione infiammatoria o meccanica, rimuovendo le placche adese e aprendo micro-lacune da cui passano fluidi e sangue”. L’entità di questi fenomeni ha contribuito a fare di aducanumab un vero e proprio caso, dato che il percorso di approvazione del farmaco negli Stati Uniti è stato aspramente contestato: infatti, un apposito comitato di esperti della FDA non aveva ritenuto convincenti i dati clinici dell’anticorpo monoclonale, esprimendosi contro la sua commercializzazione, ma il supremo organo regolatore statunitense ha comunque concesso al farmaco un’approvazione condizionata. “Bisognerà attendere i dati definitivi per avere un’idea della sicurezza e della reale efficacia di aducanumab”, afferma Di Fede. “Infatti, se il farmaco distrugge le placche di beta-amiloide senza arrestare il decadimento cognitivo del paziente l’obiettivo del trattamento non può dirsi raggiunto”.

LECANEMAB 

Secondo i vertici della FDA la riduzione dei depositi di proteina beta-amiloide dovrebbe ragionevolmente comportare importanti benefici per i pazienti con Alzheimer, e questo ha indotto molte aziende a concentrarsi sullo sviluppo di farmaci aventi tale finalità. Uno di questi è lecanemab, un anticorpo monoclonale capace di legarsi con grande affinità agli aggregati di proteina beta-amiloide; messo a punto da BioArtic Neuroscience, il farmaco è stato concesso in licenza a Eisai che ha poi stabilito una collaborazione con Biogen per curarne lo sviluppo e la commercializzazione. “Il meccanismo d’azione è il medesimo di aducanumab ma, in questo caso, oltre alla riduzione della placca amiloide si osserva un effetto clinico, rilevato dall’analisi dei dati ottenuti tramite apposite scale di punteggio utilizzate per valutare il declino cognitivo del paziente”, spiega Di Fede. “I risultati di uno studio clinico di Fase III pubblicati sulla prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine mostrano l’efficacia del farmaco nel ridurre sia la placca amiloide che il declino cognitivo, con un profilo di sicurezza migliore rispetto a quello di aducanumab”. Anche stavolta, la Food and Drug Administration ha espresso un parere favorevole, autorizzando l’impiego dell’anticorpo monoclonale tramite approvazione accelerata, procedura solitamente destinata a quei farmaci che si prevede possano fornire un beneficio clinico nel trattamento di condizioni mediche particolarmente gravi e orfane di cura.

DONANEMAB

Un terzo attore sul palco degli anticorpi monoclonali è donanemab, sviluppato dalla multinazionale farmaceutica Eli Lilly: come nel caso di lecanemab, anche questo farmaco sembra mostrare la capacità di disgregazione della proteina beta-amiloide e un promettente effetto clinico di rallentamento della progressione di malattia. Purtroppo è stata la stessa casa farmaceutica, in un comunicato stampa di poche settimane fa, a sottolineare che gli effetti collaterali osservati con gli altri monoclonali sono presenti anche in un numero non trascurabile di pazienti trattati con donanemab, effetti che, perciò, vanno accuratamente monitorati. Attualmente, il ristretto numero di pazienti trattati con il farmaco di Eli Lilly nel trial clinico di Fase III TRAILBLAZER-ALZ 2 non è stato ritenuto dalla FDA sufficiente per l’approvazione accelerata del farmaco, anche se gli effetti clinici del trattamento sembrano essere decisamente incoraggianti.

LA SOLA RIDUZIONE DI PLACCA AMILOIDE PUO’ NON ESSERE SUFFICIENTE

Saranno necessari dati corposi e definitivi provenienti dagli studi di Fase III per ottenere un riscontro definitivo su sicurezza ed efficacia di questi nuovi farmaci nel trattamento della malattia di Alzheimer”, commenta Di Fede, ricordando i casi di altri anticorpi monoclonali, come solanezumab (Eli Lilly) o gantenerumab (Roche), il cui processo di sviluppo ha subito un brusco arresto in seguito al mancato raggiungimento degli obiettivi relativi al rallentamento del declino cognitivo dei pazienti. “Da aducanumab in poi, la principale differenza rispetto alle vecchie generazioni di anticorpi monoclonali è legata all’epitopo, cioè la regione della proteina beta-amiloide verso cui sono diretti i nuovi farmaci. Infatti, alcune molecole hanno prodotto un risultato migliore prendendo a bersaglio le forme oligomeriche o fibrillari di beta-amiloide, da cui derivano poi le tipiche placche che danneggiano il cervello dei pazienti”. 

Con la riduzione della placca amiloide medici e ricercatori pensavano di aver trovato la ‘crepa’ nella barriera difensiva dell’Alzheimer ma, come si è potuto constatare, a questa strategia terapeutica non sempre si associa un effetto clinicamente significativo. “Anticorpi monoclonali come aducanumab, lecanemab e donanemab agiscono nelle fasi precoci di malattia; tuttavia, non vi è dimostrazione che possano essere altrettanto efficaci nelle fasi più avanzate, quando i danni prodotti dall’Alzheimer sul cervello sono estesi e irrecuperabili”, aggiunge Di Fede. “I meccanismi patogenetici di questa forma di demenza sono intricati e potrebbero non risolversi del tutto con la distruzione degli ammassi di beta-amiloide. Sebbene una riduzione del rallentamento cognitivo come quella riportata nei trial clinici possa essere considerata un successo importante nella storia terapeutica della malattia, il livello di complessità dell’Alzheimer fa supporre che un approccio diretto contro un singolo bersaglio molecolare non sia sufficiente”.

Oltre ad approfondire la reale sicurezza ed efficacia di questi nuovi anticorpi monoclonali, sarà dunque necessario rivolgere l’attenzione anche ad ulteriori approcci terapeutici, come quello basato su oligonucleotidi antisenso, o a strategie di trattamento che guardino non solo alla proteina beta-amiloide ma anche agli altri fattori coinvolti nella malattia di Alzheimer, come ad esempio la proteina Tau. “È essenziale avere una visione chiara di quali siano i bersagli da centrare”, conclude Di Fede. “E dal momento che gli attori coinvolti sono molteplici, probabilmente bisognerà riflettere sulla possibilità di impiegare, e valutare all’interno di specifici trial clinici, nuove strategie combinate, rivolte non solo contro la proteina beta-amiloide ma coinvolgenti anche altri target molecolari”.

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