Osservatorio Malattie Rare fa il punto con il Prof. Carlo Pozzilli
La Sclerosi Multipla è una malattia cronica verso la quale c’è sempre molta attenzione; non potrebbe che essere così considerato che colpisce persone nel pieno della loro vita sociale ed affettiva e che dovranno convivere con la malattia per molti anni. La ricerca si sta dando molto da fare sia per comprendere meglio cause e meccanismi, sia per trovare terapie nuove, più efficaci, tollerabili e in grado di intervenire anche sui casi che resistono ai farmaci tradizionali. Su tutti questi aspetti abbiamo voluto fare il punto della situazione con uno tra i maggiori esperti italiani sulla malattia, il Prof. Carlo Pozzilli, Ordinario di Neurologia alla Sapienza di Roma e responsabile del Centro Sclerosi Multipla del S. Andrea.
Professore partiamo dalla diagnosi. Per alcune malattia, soprattutto per quelle rare, arrivare a questa tappa può essere un calvario, e per la Sclerosi Multipla?
Lo strumento d’elezione per arrivare oggi alla diagnosi è la risonanza magnetica, che permette di vedere numero e localizzazione delle lesioni. Se il paziente, in seguito al primo episodio, viene ricoverato in una struttura dotata di risonanza magnetica, il processo diagnostico si conclude rapidamente. Se questa tecnologia non è interna al centro ospedaliero è possibile che il paziente venga prima dirottato verso la TAC e solo in seguito alla risonanza magnetica, con evidente allungamento dei tempi di diagnosi. Fondamentale è la visita neurologica che deve essere richiesta dal medico di famiglia o da altro specialista al minimo sospetto. Infatti, oltre alla risonanza magnetica, occorre effettuare, sempre in ambito neurologico, ulteriori accertamenti quali il prelievo del liquido cefalorachidiano attraverso la puntura lombare e i potenziali evocati, che permettono di ottenere una valutazione globale delle condizioni subcliniche del paziente.
In base a quali elementi viene decisa la terapia da seguire?
Non tutti i malati di SM sono uguali. Ci sono pazienti che presentano, dopo il primo episodio, pochissime lesioni, altri in cui scopriamo che il processo è di vecchia data almeno dal punto di vista dell’esordio biologico, per cui il numero di cicatrici pregresse, che sono lì da tempo ma non hanno mai dato sintomi, è elevato. In termini di disabilità, però, quello che davvero fa la differenza è la localizzazione delle lesioni, quelle maggiormente disabilitanti sono nel midollo spinale. Un altro elemento da considerare è la capacità di recupero del paziente. Se nell’arco di uno-due mesi non c’è un recupero completo – ma magari rimane un disturbo residuo– il neurologo si rende conto che in quel caso i processi riparativi di rimielinizzazione sono carenti, per cui verosimilmente dopo ogni recidiva potrà residuare ulteriore disabilità. Pazienti di questo tipo andranno trattati fin dall’inizio con le terapie maggiormente efficaci a disposizione. Visto che ci sono tutti questi elementi da considerare è importante che il paziente si rivolga a un centro realmente esperto ed adeguato: in Italia i centri per la SM sono circa 200 ma quelli in grado di offrire un trattamento di eccellenza poco più di una trentina.
Oggi quali sono le opzioni terapeutiche?
Se ci troviamo di fronte ad un paziente che ha avuto una diagnosi precoce ed ha una malattia allo stadio iniziale si usano gli immunomodulatori. Fra questi sono da ricordare gli interferoni, come il Betaferon di Bayer, il Rebif della Merck Serono, l’Avonex della Biogen Idec e l’Extavia della Novartis, e in alternativa il Glatiramer acetato commercializzato sotto il nome di Copaxone (Teva). Sono farmaci con effetto preventivo, che si somministrano per via iniettiva sottocutaneo o intramuscolare. Per i pazienti che alla diagnosi presentano una malattia più aggressiva o non rispondono alle terapie di prima linea, si utilizza il Natalizumab, terapia altamente efficace di recente introduzione. Quello che però indicano alcuni dati di recente pubblicazione anche da parte del nostro gruppo di ricerca è che l’interruzione della terapia con Natalizumab (Biogen Idec) può essere più rischiosa. Infatti più frequentemente rispetto ad altre terapie si assiste ad una ripresa della malattia a volte cosi importante da verificarsi un vero e proprio effetto rebound, cioè un manifestarsi della malattia in modo più eclatante rispetto a quello che si verificava prima del dell’inizio del trattamento con questo farmaco.
Di SM ultimamente si è parlato molto in relazione alla CCSVI e all’ipotesi sostenuta dal prof. Zamboni di una valenza terapeutica dell’angioplastica per questi casi. Cosa ne pensa?
Ci sono oggi molteplici evidenze che parlano a favore di una associazione tra CCSVI e SM e ritengo che ulteriori studi epidemiologici potranno solo confermare tale dato. Va invece ancora compreso se rimuovere l’insufficienza venosa sia utile al paziente e come vada fatto. Abbiamo recentemente osservato anomalie venose presenti in ragazzi molto giovani con età inferiore ai 18 anni e all’inizio della malattia che supportano la considerazione che la CCSVI possa rappresentare una condizione antecedente e non essere conseguente alla malattia. La CCSVI dunque, se pur non è certamente la causa della malattia, potrebbe costituire un elemento da considerarsi in relazione alla possibile influenza nel corso della malattia. È legittimo che i pazienti vogliano sapere se rimuovendo il problema possono sperare in un andamento meno aggressivo della malattia oltre che ottenere un miglioramento dei sintomi che li affliggono. Il problema più difficile pero è quello di disegnare sperimentazioni rigorose da un punto di vista scientifico (studi controllati, randomizzati, in cieco) e che nello stesso tempo siano accettabili da un punto di visto etico. Rimango tuttavia ottimista nella possibilità che la ricerca in tempi brevi possa fornire ai pazienti le giuste risposte in quanto molte sperimentazioni sono attualmente in corso in diversi paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti ed il Canada.
Seguici sui Social