Dott.ssa Miryam Carecchio: “È una malattia genetica, e quindi ereditabile: nel momento in cui viene fatta una diagnosi è importante il counselling genetico familiare”
La Primary Familiar Brain Calcification (PFBC) – precedentemente nota come malattia di Fahr – è una malattia genetica rara, caratterizzata dalla presenza di accumuli di fosfato di calcio in alcune aree del cervello, specialmente a livello dei gangli della base (ne abbiamo già parlato qui). La conoscenza della malattia è tutta in divenire: in poco più di 10 anni è stato scoperto il coinvolgimento di diversi geni ed è così cambiata – almeno in parte – la gestione della malattia. Sebbene quasi la metà dei pazienti resti ancora senza una conferma genetica, per l’altra metà si può oggi procedere con il counselling genetico: questo perché, essendo una malattia genetica, è trasmessa e potenzialmente trasmissibile e questi aspetti vanno tenuti in considerazione. Ne abbiamo parlato con Miryam Carecchio, professore associato di neurologia presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova.
Professoressa Carecchio, quali sono le caratteristiche principali della malattia?
La PFBC è una malattia rara ereditabile, classificata come neurodegenerativa come le più note malattie di Parkinson e di Alzheimer. Quello che la distingue è la presenza di calcificazioni in alcune aree del cervello, in particolare i gangli della base, ma anche nel cervelletto e in altre zone. Queste calcificazioni sono dovute a un accumulo di fosfato di calcio e sono rilevabili tramite tecniche radiologiche. L’esame d’elezione è la TAC che, pur essendo un approccio un po’ datato, permette di identificare le calcificazioni. La risonanza magnetica, molto più frequentemente usata oggi, le rileva ma spesso non in modo corretto, ad esempio non è precisa sulla estensione delle calcificazioni.
Queste calcificazioni possono essere più o meno estese e tendono a peggiorare nel corso degli anni, anche se questo non si traduce necessariamente in un peggioramento dei sintomi. Infatti, i pazienti possono avere calcificazioni molto estese ma non lamentare assolutamente nessun disturbo, oppure possono avere disturbi neurologici progressivi anche a fronte di calcificazioni più ridotte. Per questo motivo, spesso i pazienti arrivano da noi in modo casuale: magari hanno fatto un incidente stradale e sono stati sottoposti ad esami per un trauma cranico minore e nel referto vengono rilevate le calcificazioni, pur non presentando sintomi.
Al di là dei pazienti scoperti per caso perché senza una sintomatologia evidente, quali sono i sintomi che una persona con la PFBC può presentare e che possono condurla a sottoporsi a una visita neurologica?
I casi sono molto diversi uno dall’altro, sia per età sia per manifestazioni cliniche: non c’è un paziente standard. Quando ci sono sintomi, questi sono molto variabili e in questo sta la complessità della malattia. Le manifestazioni cliniche possono essere di natura psichiatrica (manifestazioni depressive, fobie, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi del sonno, etc.) e in questo caso il paziente viene in prima battuta indirizzato dallo psichiatra, per poi passare – si spera – attraverso un percorso che porta alla diagnosi; oppure possono presentarsi dei disturbi cognitivi (di memoria, di pianificazione, visuo-costruttivi); o anche, ed è qui che entra in gioco il neurologo, possono esserci disturbi del movimento, che in alcuni casi possono essere molto simili a quelli che si manifestano nella malattia di Parkinson. Includono, infatti, tremore, lentezza e rigidità. Ci sono pazienti che mostrano sintomi indistinguibili da quelli del Parkinson, ma le calcificazioni nel cervello dimostrano che non è quello, in quanto assenti nelle altre malattie neurodegenerative. Questi tre nuclei sintomatici – psichiatrico, cognitivo e del movimento – possono essere presenti da soli o variamente intersecati tra loro, così da presentare ogni volta un quadro clinico molto eterogeneo. Possiamo però dire che, nella maggior parte dei casi, la malattia si manifesta inizialmente con un disturbo del movimento. Avendo una natura degenerativa, se la malattia si manifesta con dei sintomi, è verosimile che poi peggiori nel tempo, anche se la velocità di questo peggioramento è molto variabile. Bisogna seguire i pazienti nel tempo perché la prognosi è molto diversa: c’è chi a 85 anni e con calcificazioni piuttosto serie è autonomo e ha vissuto la sua vita tranquillamente e in assenza di sintomi gravi, e chi in giovane età e con calcificazioni di ridotte dimensioni ha una sintomatologia che impatta sulla qualità di vita.
Come avviene la diagnosi, quali sono le difficoltà che incontrate nel percorso diagnostico e come funziona la presa in carico dei pazienti affetti da PFBC?
La difficoltà più grande in fase di diagnosi differenziale è quella di distinguerla dalle altre malattie neurodegenerative e da altre malattie che possono causare calcificazioni, come ad esempio alcune patologie endocrinologiche. Ci possono essere, infatti, alterazioni del metabolismo del calcio – ad esempio se ci sono patologie che colpiscono le paratiroidi – che portano all’accumulo di calcio in alcune aree cerebrali, ma in questo caso la patologia di base è trattabile e non su base genetica. Le calcificazioni escludono la diagnosi di alcune malattie neurodegenerative, come la malattia di Parkinson o di Alzheimer, e anche se la visita iniziale può essere fuorviante, tramite un corretto iter diagnostico si arriva alla diagnosi corretta. Nel percorso diagnostico si vanno ad escludere altre cause di calcificazioni cerebrali perché, nel momento in cui viene formulata una diagnosi di PFBC, bisogna essere davvero sicuri. Essendo una malattia genetica, infatti, ci sono delle conseguenze di non solo per il paziente ma anche per la sua famiglia, essendo una malattia potenzialmente ereditabile e trasmissibile.
La presa in carico del paziente viene fatta prevalentemente a livello ambulatoriale, con delle visite cadenzate che comprendono la valutazione neurologica e spesso anche quella neuropsicologica per valutare le funzioni cognitive. La diagnosi differenziale parte da una TC e, una volta stabilito che si tratta di PFBC, con il consenso del paziente si passa alla conferma genetica, al netto delle conoscenze attuali. Queste analisi genetiche si sono evolute negli ultimi anni e ci hanno consentito di individuare molti pazienti con una genetica positiva e fare counselling genetico e individuare familiari affetti (se lo desiderano). Questa malattia ha però una peculiarità: avere evidenza di malattia a livello radiologico – cioè presenza di calcificazioni che significano alterazioni dal punto di vista biologico – non significa avere la malattia dal punto di vista clinico, cioè manifestare dei sintomi. Di conseguenza, nella stessa famiglia possiamo avere diversi soggetti con referti di TC simili, ma alcuni sintomatici e altri no. È un livello di complessità che di solito non c’è nelle malattie genetiche. Noi medici, anche di fronte a una TC positiva e alla conferma genetica, non possiamo dire se nel corso della vita il paziente manifesterà dei sintomi e di che tipo essi saranno nel caso specifico. Questa è una peculiarità molto delicata da gestire con i pazienti: c’è un disallineamento tra quello che mostrano gli esami e ciò che mostra il paziente alla visita neurologica.
Inoltre, ricostruendo la genetica di alcune famiglie, siamo andati anche a fare delle diagnosi post-mortem: persone che magari hanno avuto diagnosi di schizofrenia decenni fa o che sono state istituzionalizzate per patologie psichiatriche in giovane età - e in parte ghettizzate da una società non pronta ad accogliere il malato psichiatrico – si è scoperto essere in realtà casi di PFBC. Inevitabilmente, la mancanza di informazioni sulla malattia in passato non ha permesso l’informazione alle famiglie.
In alcuni casi facciamo un breve ricovero per condensare tutti gli approfondimenti diagnostici in pochi giorni. In clinica neurologica a Padova abbiamo, infatti, la possibilità di ricoverare in maniera elettiva dei pazienti con malattie neurodegenerative e questo ci permette di andare incontro alle esigenze di chi arriva da lontano, il tutto grazie al Sistema Sanitario Nazionale.
E a livello di trattamento, ci sono già delle opzioni terapeutiche o dei trial clinici in corso?
Purtroppo non esiste una terapia specifica per la malattia, neanche a livello sperimentale: non esistono ancora delle soluzioni per eliminare efficacemente l’accumulo di calcio. Del resto, è una malattia ancora poco nota e i meccanismi alla base restano in gran parte sconosciuti. Dopo la diagnosi, si procede con un follow-up ambulatoriale in cui i pazienti con disturbi del movimento possono essere trattati con farmaci sintomatici, che sono molto spesso gli stessi usati per il Parkinson. E altrettanto spesso questo approccio funziona. Lo stesso viene fatto per i pazienti che presentano disturbi cognitivi: in questo caso vengono utilizzati gli stessi farmaci prescritti per trattare la malattia di Alzheimer, quindi quelli usati per favorire la memoria e i processi cognitivi.
Pur non essendoci terapie specifiche, possiamo comunque usare delle terapie sintomatiche mutuate da malattie simili, che in una significativa parte di pazienti possono migliorare la qualità di vita. Siamo inoltre molto attenti anche all’aspetto disautonomico della malattia, cioè alle possibili alterazioni del sistema nervoso autonomo (pressione sanguigna, frequenza cardiaca, problemi genitourinari e gastrointestinali) ed alla qualità del sonno. Sono tutte componenti al di fuori dei tre nuclei principali di sintomi, ma vanno valutate e gestite per garantire al paziente un miglioramento della qualità di vita. Su questi aspetti pochissimo è stato scritto nella letteratura medica: la comprensione dettagliata della patologia e, di conseguenza, sapere cosa guardare nel paziente e valutarlo nel tempo non esiste ancora. Anche se teoricamente la malattia era stata descritta negli anni ‘30 del Novecento, praticamente sono poco più di 10 anni che esiste nell’immaginario del neurologo.
Il fatto che sia così tanto variabile e che, di fronte a calcificazioni simili, le manifestazioni cliniche siano molto diverse è un aspetto davvero particolare. È una malattia recente e, come diceva, le scoperte sono in divenire. A livello biologico come si può spiegare in poche parole cosa accade ai neuroni?
È un mistero ed è anche il fascino di questa condizione, e questo stimola la ricerca che – per fortuna – negli ultimi anni è più attiva. È una malattia affascinante perché di fatto il cervello si ossifica: il fosfato di calcio è il composto alla base della formazione delle ossa e, alla TC, le parti del cervello compromesse si vedono come le ossa della scatola cranica. L’osso, in condizioni di normalità, è composto da fosfato di calcio che viene deposto da cellule particolari chiamate osteoblasti. Nel caso della PFBC le cellule cerebrali subiscono una trasformazione a causa delle mutazioni genetiche: questo le fa assomigliare agli osteoblasti, che non sono presenti normalmente nel cervello. In ultima analisi ciò che succede è che si deposita fosfato di calcio e da qui il processo di calcificazione.
A livello cellulare non è una malattia del neurone, ma può essere definita come una malattia dei periciti, che sono cellule che si trovano nei vasi sanguigni del cervello e che costituiscono la barriera ematoencefalica. Anche se in neurologia ancora oggi non c’è un consenso sulla definizione di pericita, la degenerazione del neurone è solo lo stadio finale di un processo più complesso di quello che normalmente si vede nelle più classiche malattie da accumulo.
Il centro ERN-RND della Clinica Neurologica di Padova è quello con la maggior casistica italiana, ma nel nostro Paese non ci risultano dei centri dedicati alla PFBC.
Esatto, non esiste un istituto o un dipartimento dedicato unicamente alla PFBC. Noi siamo un centro ERN-RND (Rare Neurological Diseases), cioè abbiamo il riconoscimento dell’Unione Europea per la nostra competenza nelle patologie neurologiche rare, ma all’interno dell’elenco delle patologie che fanno capo a questo ERN, non esiste questa specifica malattia. Di conseguenza, non siamo riconosciuti come esperti di questa malattia perché nemmeno a livello europeo c’è un riconoscimento specifico.
Al di là delle certificazioni, i centri in Italia a cui si può rivolgere un paziente ci sono: oltre al nostro, sono assolutamente in grado di fare la diagnosi i gruppi clinici e di ricerca che si occupano di disturbi del movimento, cioè chi si occupa principalmente di Parkinson e più in generale di malattie neurodegenerative. Purtroppo, non in tutti i centri è possibile approfondire la genetica della malattia e avere il counselling genetico, motivo per cui spesso i pazienti sono inviati alla nostra attenzione. Padova è il centro in Italia con una maggior casistica monocentrica e anche con progetti di ricerca dedicati.
Tra le altre cose, faccio parte di un consensus internazionale di esperti che comprende ricercatori provenienti da tutti i continenti e che sta elaborando delle nuove linee guida per la gestione della PFBC. Sono l’unica italiana inclusa nel gruppo, ma fortunatamente ci sono contatti stretti sia con molti colleghi italiani sia con altrettanti colleghi stranieri con cui il confronto è sempre aperto e fruttuoso. Negli ultimi anni si è fatto molto per questa malattia e speriamo si possano raggiungere altri traguardi nel prossimo futuro.
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