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Intervista a Paula Morandi, rappresentante dei pazienti affetti da malattie mitocondriali della vista per Mitocon 

“Mi trovavo negli Stati Uniti con mio marito e mio figlio di due anni. Guardavo la tv e ho percepito qualcosa di strano, come se avessi la vista annebbiata. Con un gesto ho coperto l’occhio sinistro, e ho capito che dal destro non riuscivo a vedere bene. Come ci fosse una macchia”. Inizia così il racconto di Paula Morandi che, nel 1991, viveva in un paesino della Carolina del Nord dove non c’erano ospedali. Qualche settimana prima aveva avuto dei problemi all’orecchio. La diagnosi iniziale: un tumore sul nervo acustico che comprimeva il nervo ottico. “Oggi ci sono tantissimi tipi di tumori al cervello che si possono curare – racconta Paula – trent’anni fa no. Ho passato diverse settimane a rimuginarci su”. 

Poi il viaggio verso il Duke University Medical Center, con una nuova diagnosi di ictus cerebrale. Tra le plausibili ipotesi, anche la sclerosi multipla. Il lungo iter nella ricerca delle cause di questo disturbo alla vista si conclude al Johns Hopkins Medical Center di Baltimora, nel maggio del ‘92, con un test genetico che riconduce alla neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON). “Solo tre anni prima, il professor Doug Wallace aveva individuato la mutazione mitocondriale che causa questa neuropatia. All’epoca, negli Stati Uniti, la chiamavano sindrome di Wallace. La ricerca, allora, era all’inizio, ma la cosa che mi stupisce è che ancora oggi, dopo trent’anni, si commettono sempre gli stessi errori: prima di arrivare alla diagnosi di LHON si inciampa in una serie di diagnosi sbagliate”.

In breve tempo, il problema alla vista si estende anche all’occhio sinistro: la LHON si traduce in uno scotoma centrale, per cui l’immagine che l’occhio restituisce sparisce a partire dal centro. Quest’area ‘vuota’ si allarga sempre di più, lasciando talvolta un residuo di visione periferica. “Mi dissero di mettermi il cuore in pace perché sarei diventata cieca. Non c’era una cura. Io però ho continuato a indagare, a informarmi, a cercare, perché se anche una cura per me non c’era, non potevo fermarmi lì. La vita va sempre avanti”.

L’importanza della ricerca 

Nel 1998, Paula, a Roma, viene in contatto con un centro che si occupa della sua patologia e conosce la dottoressa Annamaria De Negri, una dei principali referenti della regione Lazio per la LHON, la quale la mette in contatto con il Bellaria di Bologna. Lì, con il professor Carelli e la dottoressa La Morgia, Paula sceglie, all’inizio del 2000, di mettersi a disposizione della ricerca: “Io ero ormai già una paziente cronica, ma ho scelto di fare, in Day Hospital, una biopsia cutanea e una biopsia muscolare, per fare la mia parte negli studi sulla patologia”.

Prosegue poi: “Ad un convegno di Mitocon, nel 2008, dopo qualche anno di stasi, ho sentito parlare nuovamente di neuropatia ottica ereditaria di Leber e ho capito che la ricerca stava facendo passi avanti. Ho continuato a informarmi, venendo a conoscenza dell’idebenone, una molecola somministrata nella dose di 900mg al giorno ai pazienti affetti da LHON, entro un anno dall’insorgere della patologia. Se la Leber è diagnosticata per tempo, poi, ci sono buone speranze con la terapia genica, che si spera possa venire approvata entro la fine dell’anno.”

Le associazioni, una rete di contatti, la tecnologia: aiuti cruciali per i pazienti

Una parte fondamentale dell’esperienza di Paula viene dal rapporto con le associazioni. “Diversi anni fa sono diventata rappresentante dei pazienti affetti da malattie mitocondriali della vista per l’associazione Mitocon in Italia e, nel maggio 2021, sono entrata nel board di International Mito Patients (IMP), la federazione che raccoglie 17 associazioni di pazienti mitocondriali in tutto il mondo, a cui si è aggiunta recentemente la LHON Deutschland. Con loro, due anni fa, in concomitanza con l’inizio della pandemia, ho proposto di organizzare la Giornata Mondiale della LHON che, da allora, si festeggia il 19 di settembre”. 

Le forme di aiuto e di supporto per pazienti e famiglie sono molteplici, nonostante la pandemia di COVID-19 abbia modificato i rapporti interpersonali. Oltre ad acuire le difficoltà della vita di tutti i giorni, infatti, il COVID ha però permesso di intensificare le comunicazioni digitali. Questo per ovviare all’impossibilità di partecipare fisicamente a meeting, conferenze, riunioni, ma anche al semplice lavoro in presenza. “Sono situazioni assurde per una persona normale, ma per chi è affetto da LHON è pane quotidiano. La pandemia ha messo in luce alcune difficoltà che i malati rari vivono costantemente. Io mi sono sempre affidata alla tecnologia e quello che cerco di fare nel mio piccolo è guidare e insegnare agli altri a sfruttare le opportunità che questa ci offre. Con uno smartphone si può fare molto, esistono applicazioni per qualsiasi cosa: strumenti per il riconoscimento di chi abbiamo di fronte; sintesi vocali che leggono al posto nostro; mappe che ci aiutano a muoverci nel mondo segnalando attraversamenti, pericoli e altro. L’accessibilità è un concetto molto semplice da attuare, le soluzioni ci sono. Basta volerle”.

In chiusura, Paula Morandi riflette sui punti fermi attorno ai quali ruota la sua vita: la famiglia e le amicizie, che sono fondamentali per farsi scudo contro le difficoltà del quotidiano; la tecnologia, che applicata correttamente crea vere soluzioni; il rapporto con persone che vivono la nostra stessa situazione, perché è ciò che ci fa capire che non siamo soli: “Quando ho conosciuto per la prima volta un altro paziente affetto da LHON è stata una sensazione incredibile, avevo di fronte qualcuno che potesse capirmi davvero. Lì ho avuto la certezza che aiutare gli altri, mettere in comunicazione le persone e creare una grande rete è il modo migliore per farsi forza. Lotto ogni giorno affinché tutti abbiano una spalla su cui poter contare e affinché i diritti dei pazienti vengano pienamente riconosciuti”.

Leggi anche: “LHON, la testimonianza di Rosella: ‘La mia speranza è la terapia genica’”.

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