malattia di Huntington, prof. Ferdinando SquitieriProf. Ferdinando Squitieri (Roma): “Pensiamo che una persona ogni 1.000 abbia un rapporto più o meno lontano di parentela con qualcuno che sia affetto dalla malattia”

L’insieme delle malattie neurodegenerative comprende molte condizioni scatenate da mutazioni in particolari geni. Esse si configurano come patologie croniche e progressive, nelle quali il tratto principale è la cattiva funzione o perdita selettiva dei neuroni che regolano le aree motorie, cognitive e comportamentali. Una delle più aggressive è la malattia di Huntington, contraddistinta da una perdita di connessioni nervose e di neuroni a livello del caudato, del putamen e di aree corticali, con conseguenze drammatiche sul paziente: i disturbi non si limitano alla sfera motoria, con il prodursi di quel classico insieme di movimenti involontari e bruschi a danno del tronco, del volto e degli arti che, in medicina, prende il nome di còrea. I pazienti vanno incontro anche ad un irreversibile deterioramento della sfera cognitiva e comportamentale che li conduce all’invalidità e alla demenza.

Seppur inclusa nel gruppo delle malattie rare, l’Huntington è ben più diffusa di quanto si immagini. “La malattia ha una frequenza molto diversa nelle varie popolazioni”, spiega il prof. Ferdinando Squitieri, Responsabile dell’Unità Ricerca e Cura Huntington e Malattie Rare dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza/CSS-Mendel di Roma e Direttore Scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington e malattie correlate (LIRH) Onlus. “All’interno della popolazione europea, così come in quella nordamericana, le sue frequenze sono le più alte e sono stimate in 10-14 casi per 100.000 abitanti. Nel nostro Paese, la frequenza, per quanto sottostimata, si aggira intorno agli 11 casi per 100.000 persone. Quindi, calcoliamo di avere circa 6.000-6.500 persone malate solo in Italia, ma trattandosi di una malattia genetica dominante, le persone a rischio di ereditare la mutazione salgono a 30.000-40.000. Si può perciò concludere, perciò, che sul piano sociale questo sia un problema che arriva a coinvolgere circa 50.000 persone e, se a ciò si aggiunge anche che l’invecchiamento della popolazione gioca un ruolo di primo piano nella stima di frequenza, una proiezione eseguita sulla nostra popolazione ci lascia immaginare un ulteriore aumento della frequenza del 17% sulla stima iniziale. In altri termini, pensiamo che una persona ogni 1.000 abbia un rapporto più o meno lontano di parentela con qualcuno che sia affetto da malattia di Huntington”.

È stato dimostrato come le popolazioni occidentali abbiano una predisposizione genetica per questa malattia, perché mostrano un tasso di mutazione più alto delle asiatiche. Ciò significa che all’interno di queste popolazioni si possono generare più facilmente delle nuove mutazioni. “Può esistere, nella popolazione generale, una condizione genetica predisponente per cui un individuo non affetto dalla malattia o in cui non si riscontri la mutazione può comunque trasmettere ai figli una condizione mutante”, spiega Squitieri. “È una condizione rara ma possibile: il 7% delle nuove mutazioni presenti può avere origine da condizioni predisponenti”.

Il meccanismo genetico alla base della malattia di Huntington influenza anche la sua stessa manifestazione clinica. Si tratta, infatti, di una malattia causata da un’espansione della tripletta CAG del gene che codifica per una proteina nota come “huntingtina”. Quando la tripletta CAG si ripete troppe volte nel gene responsabile della malattia si produce una mutazione. “Tale mutazione ha due grandi caratteristiche”, prosegue l’esperto. “E’ instabile, perché da genitore a figlio, in corso di trasmissione genetica inter-generazionale, si può modificare in lunghezza. Inoltre, genera anticipazione di insorgenza. Ciò significa che la malattia può insorgere a qualsiasi età. Comunemente, si riporta l’esordio tra i 30 e i 50 anni, ma l’Huntington ha la caratteristica di manifestarsi a tutte le età, con la regola di anticipare nel figlio l’età di insorgenza rispetto al genitore. Ad esempio, se un genitore si ammala a 50 anni, nel figlio la malattia tenderà a manifestarsi prima e in una maniera imprevedibile”. In una qualche modo, tutto ciò si rapporta al problema delle forme giovanili, spesso collegate a espansioni ancor più ampie della tripletta CAG.

Al di sotto dei vent’anni, la malattia si evidenzia con quadri molto eterogenei, a volte producendo un problema psichiatrico ben più marcato di quello motorio, altre volte facendo emergere disturbi motori diversi da quelli dell’adulto, con sindromi parkinsoniane associate a epilessia e ad un rapido deterioramento mentale. Riconoscere e distinguere la malattia di Huntington giovanile in questi casi e, ancor più quando i soggetti interessati non superano il terzo anno di vita, diventa molto arduo.“Il test genetico è possibile, disponibile e utilizzabile nella pratica clinica”, aggiunge Squitieri riferendosi alle possibilità di identificare precocemente la malattia. “Esiste per confermare una diagnosi clinica dubbia o per eseguire una diagnosi pre-sintomatica nel momento in cui una persona desideri sapere se potrebbe o meno andare incontro alla malattia. In tal caso, deve essere sempre associato a un attento counseling in un contesto multidisciplinare e deve essere eseguito, secondo le regole della buona pratica clinica, nei laboratori accreditati”.

Gli esiti del test genetico, quindi, devono essere gestiti in maniera prudenziale e accompagnati da un counseling qualificato. “In riferimento al counselling genetico, la competenza di chi accompagna il paziente e comunica i risultati fa la differenza”, precisa la dott.ssa Barbara D’Alessio, della Fondazione LIRH Onlus. “Sono ancora frequenti, purtroppo, i casi in cui i pazienti e i loro cari vengono messi di fronte all’esito positivo del test genetico in tempi, modi e luoghi non appropriati. I risvolti di un esito positivo del test sulla vita di chi riceve il referto, e della sua famiglia, sono complessi e profondi, pertanto la comunicazione deve essere eseguita alla luce e nel rispetto di questa complessità”. L’utilizzo del test trova valore soprattutto nel momento di porre diagnosi differenziale di malattia, visto che la malattia di Huntington tende a essere confusa con patologie quali la malattia di Parkinson, di Alzheimer o la schizofrenia. Tuttavia, esso non potrà mai avere valenza di screening fino a quando non sarà approvata una terapia risolutiva per la patologia.

“Non bisogna dimenticare che la malattia non è più nella condizione di qualche anno fa, perché oggi si impiegano farmaci sintomatici che sono in grado di tenere sotto controllo le manifestazioni comportamentali in maniera molto più efficace e convincente rispetto che in passato”, precisa Squitieri, riferendosi all’ambito terapeutico. “Spesso non se ne parla, ma la qualità della vita dei pazienti, perlomeno sotto l’aspetto del comportamento, è decisamente migliorata. Inoltre, la quantità delle sperimentazioni cliniche condotte in materia è cresciuta in maniera esponenziale e la conoscenza della malattia di base, soprattutto grazie ai modelli di laboratorio, ha consentito di arrivare a testare farmaci che prima non immaginavamo neppure di usare. Ciò significa che c’è una maggiore quantità di risorse possibili sul piano sperimentale, e alcuni dei tanti percorsi intrapresi promettono di condurre a speranze concrete”.

Nel frattempo, è fondamentale lavorare sull’aspetto psicologico della malattia. “Uno dei problemi cognitivi della malattia è l’incapacità ingravescente di riconoscere e comprendere le espressioni del viso e le emozioni degli interlocutori”, conclude Squitieri. “Se un paziente riconosce come aggressivo un individuo che semplicemente si limita a sorridere, sfoggerà una reazione alterata e astiosa. Come evidenziato in un recente lavoro, apparso sulla rivista Neuropsychologia, alcuni soggetti, già in fase pre-sintomatica, hanno una scarsa consapevolezza delle proprie emozioni e un’alterata percezione dello stato emotivo dell’interlocutore. Ecco perché sarebbe utile lavorare sulla capacità delle persone portatrici di mutazione di riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri”. Analizzando la reazione dei soggetti in questione dal punto di vista neuropsicologico, si può immaginare di creare una forma di riabilitazione cognitiva che aiuti i malati a comprendere meglio i propri limiti con una evidente ricaduta positiva sul piano del comportamento. Di fatto, si tratta di una prima e non trascurabile forma di terapia.

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