Un recente studio ha esaminato i farmaci attualmente in sperimentazione per queste forme tumorali

Provate a interrogare un amico, un parente o un vicino di casa e chiedetegli di spiegare cosa sia la luce. È abbastanza ovvio che cosa sia la luce ma non è semplice fornire una definizione chiara di questo fenomeno ed è ancora più arduo entrare nel dettaglio ed analizzarne gli aspetti prettamente tecnici. La stessa cosa succede quando si parla di tumori. Per comprendere a fondo l’argomento l’articolo pubblicato su Frontiers in Endocrinology dal dott. Camillo Jimenez, dell’Anderson Cancer Center presso l’Università del Texas, è un autentico faro capace di illuminare l’oscuro e contorto percorso che porta alla genesi del feocromocitoma, un raro tumore neuroendocrino che, nella stragrande maggioranza dei casi, origina dalle cellule del surrene mentre e in pochi altri casi si manifesta in sede extra-surrenalica (in tal caso, prende il nome di paraganglioma).

La tendenza del feocromocitoma a nascondersi è evidente fin dalla nomenclatura e diviene lampante quando si affronta il repertorio di sintomi ad esso associati: tachicardia, palpitazione, sudorazione algida e rialzi della pressione sanguigna, che si traducono in crisi ipertensive e possono determinare cefalee improvvise e attacchi di ansia. Queste manifestazioni fanno si che il tumore possa essere scambiato per una crisi di panico, cosa che gli è valsa il nomignolo di 'grande mimo' nell’ambiente medico. I sintomi sono legati al rilascio di catecolamine, una caratteristica comune a tutte le forme secernenti (ma esistono anche le forme non secernenti) e che costituisce un valido aiuto in chiave diagnostica. La genetica è un altro aspetto complesso, dal momento che non esiste un altro tumore con un ventaglio di geni potenzialmente coinvolti ampio come quello del feocromocitoma. Purtroppo, non esiste nemmeno una terapia specifica: l’opzione chirurgica è la principale, ma non si può applicare alle forme avanzate o a quelle non operabili.

L’articolo di Jimenez si focalizza esattamente sui feocromocitomi metastatici e sui paragangliomi che si diffondono in varie parti del corpo (fegato, polmone e ossa), e come un prisma scompone il fascio di luce in tutte le sue componenti, così la trattazione dello specialista americano spiega tutte le tappe del processo di oncogenesi del feocromocitoma, concentrandosi parallelamente sulle nuove possibilità di trattamento in sperimentazione per intervenire ad ognuno di questi livelli. Difatti, conoscere i meccanismi che portano allo sviluppo del tumore rappresenta la base per scovare possibili cure.

La prima chiave di comprensione è quella del microambiente tumorale: i feocromocitomi e i paragangliomi metastatici si sviluppano in un microambiente contraddistinto da ipossia, una condizione che conduce alla deregolazione dei meccanismi di produzione dell’energia, all’attivazione di percorsi di proliferazione cellulare anomala e, quindi ad uno stato di infiammazione e necrosi con reclutamento di elementi cellulari che interrompono i segnali di riconoscimento da parte del sistema immunitario. In poche parole, questo è tutto ciò che permette al tumore di crescere e diffondersi. L’espressione di alcuni geni specifici è direttamente collegata al prodursi di queste situazioni, perciò, avendo idea di quali siano i tratti tipici del tumore, è possibile pensare di evolvere linee di ricerca atte a interromperli e, quindi, a rallentare, se non arrestare, la crescita del tumore.

Nel caso dei feocromocitomi più aggressivi e metastatici, oltre a quelli già elencati, i tratti tipici della malattia sono la capacità di spegnere i geni soppressori della crescita, l’attivazione di vie di segnalazione che mandano messaggi di proliferazione cellulare (grazie ai recettori tirosin-chinasici), il rinforzo dell’immortalità replicativa e, con essa, l’aumento dell’instabilità genomica e del tasso di mutazioni (metilazione del DNA), l’aumento della capacità di invadere tessuti limitrofi e dello stato di infiammazione che conduce all’angiogenesi (produzione di nuovi vasi che irrorano la massa tumorale), la resistenza ai fenomeni di apoptosi (morte cellulare) e, appunto, la capacità di resistere agli attacchi del sistema immunitario. La ricerca sta lavorando per arginare ognuno di questi fenomeni.

Gli inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti rallentano la progressione del tumore analogamente all’opera svolta dagli inibitori della tirosin-chinasi come axitinib, cabozantinib, lenvatinib, pazopanib e sunitinib che agiscono sui meccanismi di crescita cellulare. Pazopanib e sunitinib, in particolare, bloccano l’espressione di VEGF-1, -2 e -3, di PDGF-alfa e –beta, di c-Kit e dei recettori del proto-oncogene RET. In tal modo prevengono l’angiogenesi e la crescita cellulare, favorendo l’avvio dei processi apoptotici rivolti verso il tumore. Sunitinib, già efficacemente impiegato nella terapia dei GIST del tratto gastro-intestinale, è efficace nel moderare la sintomatologia dei feocromocitomi ed è attualmente in uso in uno studio di Fase II (FIRSTMAPPP), analogamente a pazopanib, che studi precedenti suggeriscono poter essere tollerato anche meglio di sunitinib dai pazienti con feocromocitoma o paraganglioma metastatico.

Anche axitinib è un potente inibitore dell’angiogenesi che ha prodotto risultati preliminari convincenti in uno studio clinico di Fase II nel quale vengono valutate la sopravvivenza libera da malattia, il tasso di risposta e la sicurezza. Che l’inibizione dell’angiogenesi e l’interruzione dei segnali di crescita e invasione tissutale siano una buona pista da seguire è dimostrato anche dal ricorso a cabozantinib, un inibitore delle tirosin-chinasi già impiegato nel trattamento del carcinoma midollare della tiroide e del carcinoma renale a cellule chiare. Questo farmaco agisce interrompendo i percorsi di attivazione legati al recettore di c-Met che favoriscono la sopravvivenza del tumore aumentandone le capacità metastatiche. Anche in tal caso i trial, in Fase II, sono ancora concentrati sui tassi di risposta e sull’indagine degli eventi avversi.

Sul fronte dell’inibizione dei meccanismi di crescita e di induzione della morte delle cellule, la terapia radiofarmaceutica gioca un ruolo di primo piano: è in corso uno studio di Fase I che impiega lo iobenguano131I per il trattamento di pazienti affetti da feocromocitomi e paragangliomi metastatici e che valuta la sopravvivenza dei pazienti, il tasso di risposta alla terapia e la sicurezza di quest’ultima. Circa il 90% dei pazienti trattati ha ottenuto una risposta parziale e duratura (fino a 12 mesi), confermando l’efficacia di questa linea terapeutica che guarda con interesse all’uso della terapia con radionuclidi. I peptidi radiomarcati hanno dato buoni risultati contro i tumori neuroendocrini veicolando i farmaci radiomarcati all’interno della cellula tumorale. Il 177Lu-DOTATATE e il 90Y-DOTATE sono due degli agenti più interessanti e più studiati.

Infine, l’idea di potenziare il sistema immunitario preparandolo a riconoscere e affrontare il tumore va di pari passo con il consolidamento dei protocolli di immunoterapia. Oltre all’interferone alfa-2b, in un trial clinico di Fase II è in corso di valutazione l’efficacia di pembrolizumab che potrebbe rallentare in maniera significativa i tassi di progressione del tumore.

Allo stato attuale delle cose, non esiste una terapia confermata per le forme metastatiche di feocromocitoma o paraganglioma ma i ricercatori hanno identificato diversi settori tramite cui approcciarsi alla malattia per sconfiggerla: interruzione delle vie di comunicazione cellulare, potenziamento dei comparti di difesa del sistema immunitario e taglio delle vie di rifornimento suonano come strategie di guerra per le quali sono allo studio armi potenzialmente promettenti. Perché la lotta al cancro è una guerra che va combattuta iniziando a conoscere il nemico in tutte le sue sfaccettature.

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