Prof. Giancarlo CastamanIl prof. Castaman: “Esaminando più di 12mila casi, è giunta la conferma che la comparsa di anticorpi nei pazienti trattati in precedenza è un evento più raro rispetto agli anticorpi che insorgono dopo poche infusioni dall'inizio del trattamento”

Firenze – Una delle sfide ancora aperte nella terapia dell’emofilia e, in particolare, dell’emofilia A grave, è rappresentata dallo sviluppo di inibitori. Gli inibitori sono degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario del paziente emofilico che, in alcuni casi, reagiscono in modo sfavorevole al trattamento (con fattore VIII nell'emofilia A e fattore IX nell'emofilia B) e sono in grado di limitarne o annullarne l'efficacia.

La comparsa di anticorpi è molto più frequente nell'emofilia A, dove avviene fino al 30% dei casi, rispetto all'emofilia B, con solo il 3-5% dei pazienti”, spiega il prof. Giancarlo Castaman, Direttore del Centro Malattie Emorragiche e della Coagulazione dell'AOU Careggi di Firenze, co-autore di una recente revisione di una larga casistica internazionale di pazienti emofilici pluritrattati. L'indagine, coordinata dal dr. Alfonso Iorio e pubblicata sulla rivista Haemophilia, ha coinvolto un team di esperti internazionali, fra cui altri due italiani, il prof. Ezio Zanon e la dr.ssa Annarita Tagliaferri.

La valutazione del rischio di formazione di inibitori con l'uso di nuovi concentrati di fattori della coagulazione viene tradizionalmente eseguita in trial clinici includenti inizialmente pazienti precedentemente trattati (PTP). Tuttavia, l'evidenza dei fattori di rischio e la storia naturale degli inibitori sono state generate perlopiù nei pazienti precedentemente non trattati (PUP). “I pazienti mai trattati sono essenzialmente i bambini; gli altri, secondo una definizione canonica per gli studi clinici controllati, sono considerati già trattati dopo 150 infusioni, ma nella pratica clinica basta una sola infusione per classificare un paziente come già trattato”, prosegue Castaman.

Gli autori hanno sviluppato un modulo per raccogliere le caratteristiche dei pazienti con emofilia A grave, i dati relativi ai prodotti usati per il trattamento, il corso clinico degli inibitori e i fattori di rischio che possono innescare il loro sviluppo (chirurgia, vaccinazioni, disturbi immunitari, tumori, passaggio a un altro farmaco).

In letteratura sono state identificate 19 pubblicazioni che hanno riportato 38 casi di nuovi inibitori nei PTP, mentre nel registro EUropean HAemophilia Safety Surveillance (EUHASS) è stato possibile risalire a 45 casi in 31 Centri europei. La ricerca ha poi permesso di raccogliere i dati individuali dei pazienti per 55 casi di inibitori su 83 (il 66%), su un totale di 12.330 casi, dal 1998 al 2014.

Il picco medio del titolo di inibitore è stato di 4,4 Unità Bethesda, la percentuale di inibitori transitori è stata del 33% e solo due casi su 12 in fase di induzione della tolleranza immunitaria non hanno risposto a questo trattamento. Nei due mesi precedenti allo sviluppo dell'inibitore, la chirurgia è stata segnalata in nove casi (il 22%), mentre periodi di trattamento ad alta intensità sono stati riportati in sette casi (il 17%). Lo studio, il più ampio condotto finora sul tema degli inibitori in PTP, ha dimostrato dunque che il loro sviluppo nei PTP è un evento più raro e, apparentemente, con decorso in media più lieve che nei PUP.

Ovviamente – precisano gli autori – ogni singolo caso merita il massimo supporto e attenzione, e può essere percepito come estremamente grave per i pazienti, i familiari e i medici. Tuttavia, in una prospettiva di popolazione più ampia, il rischio di sviluppo di inibitori nei PTP potrebbe non essere considerato come un'informazione rilevante per le decisioni che riguardano procedure di gara o il passaggio a una terapia diversa. I benefici derivanti dalla disponibilità di prodotti nuovi o più economici, infatti, potrebbero superare il rischio di sviluppo di inibitori.

“Solitamente gli anticorpi compaiono nei bambini all'inizio del trattamento, entro le prime 15-20 infusioni, e neutralizzano la terapia, ma possono svilupparsi anche in tarda età e dopo centinaia di infusioni”, sottolinea il prof. Castaman. “I motivi per i quali ciò accada in questa fascia di pazienti sono ancora in parte da chiarire, ma sappiamo che alcune caratteristiche li favoriscono: la presenza di alcune specifiche mutazioni, l'improvvisa necessità di dover usare molto frequentemente e in un breve lasso di tempo il concentrato, e, per lo stesso motivo, la chirurgia, che necessita di numerose infusioni”.

Potrà sembrare un controsenso, ma per rendere tolleranti i bambini occorre somministrare alte dosi di quello stesso fattore VIII che ha provocato la comparsa degli inibitori (immunotolleranza): inizialmente gli anticorpi aumenteranno, ma poi – nel 60-70% dei casi – il trattamento avrà successo. “Per i pazienti che non rispondono, è possibile un trattamento sintomatico con agenti bypassanti come il fattore VII attivato ricombinante o il concentrato di complesso protrombinico attivato, che stimolano la coagulazione”, conclude Castaman. “Il limite è che non c'è mai la certezza piena che la terapia abbia successo, o che abbia successo in tempi brevi come avviene con il fattore VIII, ma solo un 80% di probabilità. Questi prodotti possono essere usati anche come profilassi, ma anche in questo caso non hanno la stessa efficacia del fattore”.

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