Intervista a Paola Facchin, responsabile Coordinamento Malattie Rare del Veneto: “Team multidisciplinari, strumenti ad hoc, assistenza h24: ecco cosa occorre; e attenzione a non impattare troppo sulle famiglie”
Parlare di malati rari e assistenza domiciliare è complesso e delicato. L’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) di oggi è disegnata per i malati cronici, per i rari occorre ripensarla da zero. Questi pazienti hanno bisogno sia dell’assistenza ospedaliera, sia di quella domiciliare. Occorre quindi ripartire dalle loro esigenze specifiche e disegnare un’assistenza ad hoc per ognuno di loro. Vietato standardizzare. Ne abbiamo parlato con Paola Facchin, responsabile Coordinamento Malattie Rare della Regione Veneto.
Dottoressa Facchin, di quale tipo di assistenza hanno bisogno oggi i malati rari?
Con il Testo Unico sulle Malattie Rare si sono compiuti passi in avanti importanti, ma alcuni punti sono rimasti scoperti. Come quello di chiarire che cosa possono pretendere o non pretendere i malati rari e i loro famigliari. Nel Testo Unico, ad esempio, se da un lato si leggono affermazioni di ampio respiro, come “presa in carico complessiva” che comprende tutto, dai farmaci alla dieta fino alla riabilitazione, prevedendo quindi anche un riconoscimento e un’interazione più attiva con istituzioni come l’INPS o il settore scolastico, dall’altra poi si mettono limiti cogenti, come “purché questi servizi siano compresi nei LEA; non a carico della finanza pubblica, etc.”. Parole, queste, che sembrano figlie di una cultura diversa rispetto alle prime affermazioni. È un paradosso: da una parte si vogliono allargare i diritti dei malati rari ma dall’altra si introducono talmente tanti paletti da rendere questo obiettivo pressoché impossibile da raggiungere. I pazienti da una parte pretendono, gli amministratori e i dirigenti ASL, dall’altra, limitano le concessioni perché mancano le coperture finanziarie necessarie. Occorre quindi lavorare a soluzioni di compromesso che siano soddisfacenti per i pazienti e per i conti pubblici. Perché i bisogni di salute sono potenzialmente infiniti, mentre i diritti di cui possono godere i pazienti sono “finiti”, e legati alle risorse disponibili.
Cosa bisognerebbe fare per adattare l’ADI alle malattie rare?
Il mondo delle malattie rare non è un sistema chiuso. Si può intanto pensare di declinare quello che già esiste per gli altri pazienti sulle esigenze dei malati rari, aggiungendo un’assistenza specifica per le singole necessità. Quello che si impara nella gestione delle malattie rare si può poi declinare sul resto. Tanto più si creano ponti tra l’organizzazione delle malattie rare e il resto del Servizio Sanitario Nazionale, tanto più il SSN avrà gambe per reggere nel futuro. Oggi si è capito che l’ospedale non può fare tutto da solo, non può prendersi carico totalmente del malato raro. Per alcuni pazienti, l’ADI può essere utile, ad esempio, per le cure palliative, la terapia del dolore o la terapia nutrizionale. Nel SSN si crede che queste attività siano separate come canne d’organo, ma in realtà queste reti devono integrarsi. L’ADI è nata per i malati cronici, ma i malati rari hanno bisogno di altro: un team multidisciplinare, strumenti ad hoc, assistenza h24. L’ADI va declinata per i bisogni complessi.
Il DM 71 potrebbe essere un’importante occasione per l’ADI dedicata ai malati rari?
Assolutamente. L’ospedale ragiona sulla malattia, il territorio sulla risposta ai bisogni assistenziali. Servono entrambi i livelli per i malati rari, occorrono risposte integrate e dinamiche. Per intenderci: un paziente affetto da SLA, dall’inizio dell’insorgenza della malattia fino alla fine, non ha gli stessi bisogni. Il territorio, nel DM 71 [recante “Modelli e standard per lo sviluppo dell'Assistenza territoriale”, N.d.R.], è stato visto come un’organizzazione omogenea. Concentrazione delle cure primarie nelle case di comunità, residenzialità non ospedaliere (ospedali di comunità) e poi dipartimenti vari di prevenzione: questa organizzazione rischia di essere piatta, uguale ovunque, ma il malato raro è in realtà complesso sia negli ospedali (che sono già organizzazioni complesse) sia sul territorio, che organizzato così, però, rischia di fornire risposte ‘piatte’: l’ADI per il malato anziano, fatta sempre nello stesso modo, non può applicarsi al paziente raro. Occorre quindi verticalizzare le reti sui territori, attraverso Hub e Spoke. Si deve identificare un'unità territoriale, ad esempio presso una sola Casa di Comunità per l'intera ASL, che sia riferimento per l'assistenza a domicilio dei malati rari per tutta la ASL stessa. Certamente ogni regione avrà delle differenze in questa gestione territoriale del malato raro, ma la variabilità non è un problema, è la stereotipia che può essere segno di patologia: non ci può essere lo stesso PDTA per tutti i pazienti rari; non stiamo facendo ricerca clinica, stiamo prendendo in carico pazienti con esigenze diverse, uno dall’altro. I servizi possono essere erogati in modo diverso, quello che non deve cambiare è il diritto delle persone a usufruire di questi servizi. Facciamo anche attenzione a non impattare troppo sulle famiglie: il supporto familiare non deve essere una scusa per risparmiare risorse. La famiglia non può erogare servizi sanitari. I genitori devono fare i genitori. Una madre non può essere infermiera. Sono i professionisti a dover essere preparati per seguire il paziente a domicilio. E non è un compito facile, perché seguire queste persone fuori dal contesto ospedaliero è complesso: a casa si lavora a mani nude, occorre adattarsi all’organizzazione famigliare. Ci vuole cuore e testa.
Nell’ADI la telemedicina può fare la differenza?
È fondamentale se vogliamo far decollare la presa in carico dei malati rari. L’accordo Stato-Regioni del 2015 sull’uso della telemedicina per i malati rari non è mai stato attuato, direi che è il momento di attivarsi. Il collegamento tra i centri ospedalieri e il territorio deve avvenire sotto responsabilità ben definite, perché stiamo parlando di prestazioni a tutti gli effetti. Durante la pandemia, nel periodo di lockdown, ci siamo attivati in ogni modo per assistere i pazienti a domicilio, e questo lo abbiamo fatto con qualsiasi mezzo disponibile, dal telefono al PC. Questa esperienza è stata utile perché chi impara a gestire un malato raro diventa più competente con gli altri pazienti. Ora occorre lavorare per attivare la consulenza tra centri, perché ancora oggi c’è troppa migrazione tra le regioni. Per ridurla occorre aumentare la qualità di tutti i centri e per questo bisogna fare consulenza (e la telemedicina può aiutare) tra i centri con esperienza e quelli che ne hanno meno.
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