Uno studio ha evidenziato un quadro sintomatologico diverso a seconda che la mutazione patologica sia di derivazione paterna o materna
Se alcune patologie genetiche fossero paragonate a dei giochi da tavolo rientrerebbero sicuramente nella categoria dei rompicapo. Quelli difficili come il cubo di Rubik o che richiedono pazienza come i puzzle da migliaia di pezzi. La sindrome di Burnside-Butler, per la particolarità genetica che la contraddistingue, è il cubo di Rubik dei genetisti perché le alterazioni genetiche che ne determinano l’insorgenza non rispondono esclusivamente alla logica dell’ereditarietà mendeliana ma sono anche soggette a un meccanismo peculiare, che fa sì che gli alleli ereditati siano espressi in modo differentemente a seconda che derivino dal padre o dalla madre. È il fenomeno dell’imprinting genico, una chiara eccezione alle regole dell’ereditarietà di Mendel.
Una violazione di questo tipo, così come l’eredità mitocondriale, che oggi viene messa in discussione, non può che avere conseguenze gravi e, soprattutto, non facili da comprendere: infatti, la sindrome di Burnside-Butler rimane un rompicapo per certi versi irrisolto, a cui ha cui cercato di dare soluzione un’equipe internazionale di studiosi, della quale hanno fatto parte anche i ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Con la loro ricerca, pubblicata sulle pagine dell’International Journal of Molecular Sciences, si sono proposti di verificare se l’effetto parentale delle microdelezioni BP1-BP2 nella regione 15q11.2 cromosomica fosse correlato a differenze importanti sul piano fenotipico.
“La sindrome di Burnside-Butler è una malattia rara e complessa, associata ad anomalie molto specifiche e caratteristiche della regione cromosomica 15q11.2, una delle aree calde e maggiormente suscettibili a rotture”, spiega il prof. Giuseppe Novelli, Rettore dell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “In seguito a tali rotture si creano delle microdelezioni o microduplicazioni perché la 15q11.2 è una regione critica, la cui alterazione è collegata a più di una sindrome genetica. Parliamo, oltre che della sindrome di Burnside-Butler, della sindrome di Prader-Willi e della sindrome di Angelman”. Queste due ultime malattie sono quelle in cui per prime si è osservato il fenomeno dell’imprinting genico: entrambe sono il risultato della delezione di uno specifico frammento cromosomico del cromosoma 15, ma nei soggetti con sindrome di Angelman la delezione è presente nel cromosoma ereditato dalla madre, mentre in quelli con sindrome di Prader-Willi è posta sul cromosoma paterno. Naturalmente, lo spettro dei sintomi di queste due patologie tende a sovrapporsi: ritardo mentale, assenza di linguaggio, microcefalia e atassia caratterizzano la Angelman; ritardo mentale ed ipotonia contraddistinguono la sindrome di Prader-Willi.
“Evidentemente, in questa regione cromosomica ci sono geni importanti, collegati tra di loro come in una sorta di stringa, a formare una speciale architettura. Se si genera una rottura, vanno incontro a un catastrofico stravolgimento con conseguenze gravi”, prosegue Novelli. “Inoltre, questa rottura può avvenire in modi diversi: si può formare un’interruzione più grande o più piccola e ciò determina differenti forme di patologia perché a seconda che il coinvolgimento dei geni alterati riguardi una regione di dimensioni maggiori o minori si hanno effetti e manifestazioni cliniche diverse”. Ciò che accomuna tutte le sindromi sopra citate è che la rottura dell’architettura di questa regione provoca un’alterazione dello sviluppo neuronale, sollevando problemi neuropsichiatrici, ritardo psicomotorio e di linguaggio, iperattività e deficit di attenzione, fenomeni compulsivo-ossessivi e disturbi associati allo spettro autistico. Naturalmente, come già chiarito, conta anche se la delezione o la duplicazione sia ricevuta dalla madre o dal padre. “Quando si osservano situazioni del genere è perché emerge che queste regioni sono controllate da un sistema di marchiatura legata al sesso”, precisa Novelli. “È il fenomeno dell’imprinting genomico. Gli stessi geni vengono trasmessi dal padre o dalla madre con una sorta di marchio di fabbrica. Nello studio si parla di origine parentale, o meglio degli effetti dell’origine parentale della microdelezione. Le manifestazioni della sindrome di Burnside-Butler sono diverse se la delezione è ricevuta dal papà o dalla mamma e i ricercatori hanno cercato di capire il senso di queste differenze”.
I risultati dello studio dimostrano che le delezioni di ordine materna sono associate a manifestazioni cliniche come la macrocefalia, l’epilessia e i disturbi dello spettro autistico, mentre quelle paterne con sintomi quali la distrofia muscolare. A guardare con maggiore attenzione, si può intuire come queste conclusioni possano rivelare aspetti importanti sulla biologia dello spettro autistico che, al momento attuale, risulta ancora da definire. “Nel caso della sindrome di Burnside-Butler, non c’è un confine netto come nel caso della sindrome di Angelman e di Prader-Willi”, conclude Novelli. “È sempre la stessa sindrome, ma con delle differenze a seconda che la mutazione sia ereditata dalla madre o dal padre. Lo scopo del lavoro è stato chiarire questo aspetto: ciò ha una profonda utilità ai fini della consulenza genetica, perché il genetista deve dare al paziente informazioni complete e il più possibile precise”.
Un rompicapo genetico che nasce in una regione altamente instabile, innescato non solo dalla rottura e dalle particolari modalità con cui essa si produce ma anche dalla marchiatura materna o paterna che sottende alla sintomatologia. Un indovinello genetico la cui soluzione potrebbe portare a indizi utili per affrontare un’altra sfida che è quella di stabilire le basi genetiche dell’autismo.
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