La malattia spiegata dal genetista Novelli. La sentenza spiegata dalla giurista e bioeticista Tallachini

Prof. Giuseppe NovelliIo e Connie siamo orgogliosi di essere i genitori di Charlie”. Sono state queste le parole che Chris Gard, padre del piccolo Charlie e marito di Connie Yates, ha pronunciato davanti alla corte inglese, nella causa in cui si sarebbe deciso il destino del proprio figlio. Una causa nella quale, come ha spiegato il giudice che ha presieduto il caso, a primeggiare doveva essere l’interesse del bambino.
La vita di Charlie è iniziata 10 mesi fa, il 4 agosto 2016. Dopo otto settimane, al piccolo viene diagnosticata una sindrome genetica da deperimento mitocondriale, che causa il progressivo indebolimento muscolare e che non lascia speranze di vita al piccolo. Secondo i medici del Great Ormond Street Hospital, dove Charlie vive in terapia intensiva da allora, non esistono cure per questa malattia rara.

Charlie soffre di una mutazione del gene RRM2B, rara quanto poco conosciuta. I genitori, informati di una possibile pioneristica terapia nucleosidica statunitense, si erano attivati per garantire al figlio la possibilità di accedervi, raccogliendo 1,2 milioni di sterline grazie alla piattaforma di crowdfunding Gofundme. Il Great Ormond Street Hospital non è rimasto uno spettatore passivo della vicenda e, a marzo 2017, aveva iniziato a richiedere l’autorizzazione etica per sperimentare la terapia nucleosidica sul piccolo, pur sapendo che un trattamento simile non era mai stato operato su un paziente con questa specifica sindrome da deperimento mitocondriale. Nel frattempo, però, le condizioni di Charlie sono peggiorate, la sua encefalopatia epilettica aveva creato un danno celebrale grave e irreversibile, per cui il trattamento sperimentale avrebbe potuto  causare sofferenze al piccolo senza speranza di alcun beneficio.

La malattia di Charlie è eterogenea, ovvero dovuta a mutazioni di diversi geni, che hanno a che fare col metabolismo del DNA mitocondriale”, spiega Giuseppe Novelli, Rettore dell’Università Tor Vergata e Ordinario di genetica medica. “I mitocondri possono essere considerati la centrale energetica delle cellule e, se non funzionano, si assiste a un progressivo deperimento totale di muscoli e nervi. Esistono più cause per questo rato gruppo di malattie, quella che affligge Charlie è inoltre particolarmente rara: l’RRM2B è la sottounità di una proteina, P53, responsabile della riparazione del DNA in caso di danneggiamenti, mutazioni o rotture della catena polinucleotidica. La malattia è trasmessa da entrambi i genitori che sono portatori sani: in questi casi, un figlio su 4 rischia di nascere malato. A oggi, non esiste una cura al mondo, così come non ne esistono per le malattie mitocondriali in genere. Sono state condotte diverse sperimentazioni in vitro e in vivo su animali, ma non è mai stato approvato alcun protocollo ufficiale. La terapia nucleosidica, che volevano tentare i genitori di Charlie, è stata sperimentata sui topi per un ceppo diverso di malattie, TK2. Non è detto che questo approccio terapeutico, che assicura un dosaggio altissimo di disossinucleosidi, possa avere gli stessi effetti anche sulla mutazione di Charlie. Quello che abbiamo, quindi, sono due approcci sperimentali tentati in un modello di topo, senza alcuna validazione e qualificazione terapeutica”, conclude Novelli.

I medici inglesi, preso atto del peggioramento dello stato di salute del bambino, hanno dichiarato di non poter fare più nulla per la vita del piccolo e, dopo otto mesi, avevano comunicato ai genitori di voler staccare le macchine, per lasciare morire il piccolo con dignità e meno sofferenza possibile.
Contro l’intenzione dei genitori di Charlie di procedere comunque con la terapia sperimentale, il Great Ormond Street Hospital si è rivolto alla High Court of Justice di Londra, chiedendo al giudice di fermare tale decisione, che non solo non avrebbe realizzato il miglior interesse del bambino, ma gli avrebbe causato gravi e inutili sofferenze terminali. Due visioni del bene del piccolo si sono così confrontate e scontrate: quella dei genitori che volevano portare il figlio in America, nonostante il peggioramento del suo stato di salute; e quella dei medici, decisi a garantire al piccolo cure palliative e una morte dignitosa e meno dolorosa possibile.

La Corte inglese ha interpellato i medici americani, per comprendere quale fosse esattamente la situazione e quante speranze di sopravvivenza potesse avere Charlie: gli esperti statunitensi – preso atto della forte encefalopatia che aveva colpito il piccolo - avevano espresso i propri dubbi circa le possibilità di miglioramento con il trattamento nucleosidico. Inoltre, non avendo mai trattato alcuna encefalopatia con questo tipo di terapia, non erano in grado di fornire basi scientifiche per un’eventuale risposta positiva da parte del bambino. Il giudice ha infatti spiegato che non ci sono prove che questo trattamento possa superare la barriera sangue/cervello; nonostante questo, se i genitori di Charlie avessero deciso comunque di portare il figlio negli Stati Uniti, i medici l’avrebbero sottoposto alla terapia.

I principi a cui si è ispirata la corte inglese per la propria decisione fanno riferimento al 'child’s best interest', ovvero all’interesse del bambino. Nello specifico, nella propria sentenza il giudice ha fatto riferimento a un’altra causa - Wyatt v. Portsmouth NHS Trust - che ben chiarisce il concetto di child’s best interest: il giudice deve porsi nei panni del bambino e andare oltre la scontata presunzione che la scelta migliore per Charlie possa essere l’ostinazione a volerlo tenere in vita. In questi casi, ha precisato il giudice, anche se può essere difficile da accettare e sebbene il padre e la madre abbiano una responsabilità nei confronti del figlio, è la Corte a dover decidere in modo autonomo e oggettivo l’interesse prevalente per il bambino.

I giudici inglesi sono stati investiti della questione perché i genitori, pur comprensibilmente, sembrano aver perso il senso del limite, decidendo di dover fare qualcosa a ogni costo”, spiega Mariachiara Tallacchini, ordinario di filosofia del diritto ed esperta di bioetica. “Anche l’argomento per cui l’eventuale trattamento di Charlie in America –anche se inutile—avrebbe dato speranza ad altri bambini non è davvero accettabile, dal momento che considera la sofferenza del bambino come un mezzo per la salvezza altrui. La sentenza del giudice inglese esprime una profonda empatia per il dolore dei genitori, che però rischia di renderli inidonei a comprendere il bene del loro bambino.

Il giudice giustifica il proprio intervento proprio in tal senso: quello di proteggere il reale child’s best interest. La corte ha dovuto valutare se applicare un trattamento puramente sperimentale su un bambino che è sopravvissuto restando intubato per nove mesi e due settimane nel corso di una vita complessiva di dieci mesi. Gli argomenti giuridici della sentenza inglese mettono in luce la gravità delle sofferenze che il bambino potrebbe patire andando negli Stati Uniti, per qualcosa che non può essere considerato nemmeno diritto alla speranza”, conclude Tallacchini.

I genitori del piccolo Charlie non hanno però accettato la sentenza britannica e si sono appellati alla Corte dei Diritti dell'Uomo, che ha bloccato la sentenza britannica fino alla giornata di oggi, nella quale si attende la decisione definitiva.

Leggi anche l'aggiornamento del 30 giugno 2017: Charlie Gard: i macchinari verranno staccati oggi.


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