Il dato emerge da uno studio dell’Istituto Besta di Milano, evidenziando la necessità di approfondire le ricadute della malattia in ambito lavorativo
La miastenia grave (MG) è una rara malattia autoimmune che coinvolge le giunzioni neuromuscolari ed è essenzialmente caratterizzata da debolezza e affaticamento dei muscoli volontari. Ma quale impatto può avere una patologia così debilitante sulle questioni legate al lavoro e sulla sfera occupazionale? A tale domanda hanno cercato di dare una risposta i ricercatori della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, con uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Neuroepidemiology. “Ad oggi sono davvero poche le ricerche che si sono concentrate sul tema. Per questo motivo, abbiamo deciso di affrontare l’argomento con una metanalisi che permettesse di far luce sui dati già esistenti in letteratura”, afferma Erika Guastafierro, prima firma dell’articolo, psicologa e ricercatrice presso l’Unità Operativa Neurologia, Salute Pubblica e Disabilità dell’Istituto milanese. Per approfondire i risultati emersi, abbiamo intervistato, insieme alla dottoressa Guastafierro, altri due autori dell’indagine: il dottor Alberto Raggi, dell’U.O. Neurologia, Salute Pubblica e Disabilità, e il dottor Renato Mantegazza, direttore dell’U. O. Malattie neuromuscolari e Neuroimmunologia.
La miastenia grave si manifesta in diverse forme e il suo impatto sulla vita quotidiana dei pazienti dipende dalla gravità dei sintomi e dal diverso coinvolgimento muscolare. A volte può presentarsi in forma localizzata, ad esempio limitata ai muscoli oculari (miastenia oculare); in altri casi, può manifestarsi con sintomi gravi e diffusi (miastenia generalizzata) o può interessare diversi gruppi muscolari, come quelli che controllano la respirazione (miastenia respiratoria) o quelli che regolano i movimenti del capo e del collo (miastenia bulbare).
La MG colpisce entrambi i sessi, ma è più comune tra le donne (circa il 70% dei pazienti). L’età d’insorgenza della malattia oscilla, in media, intorno ai 20-40 anni, ma sono ormai molto frequenti i casi a esordio più tardivo (60-80 anni). “Il punto è che, negli ultimi anni, abbiamo assistito a un vero e proprio spostamento in avanti dell’età d’insorgenza”, spiega Alberto Raggi. “Mentre le pubblicazioni storiche parlano di ‘malattia della giovane donna’, oggi l’incidenza dei casi a esordio tardivo è in costante crescita. Questo può essere attribuito in parte all’innalzamento dell’età media della popolazione generale, in parte a una maggiore consapevolezza di questa patologia. Fino a cinquant’anni fa, molto probabilmente, i sintomi che oggi ci riconducono alla miastenia ad insorgenza tardiva venivano scambiati per un normale indebolimento muscolare dovuto all’avanzare dell’età”.
Nonostante ciò, la miastenia grave resta comunque una malattia che si manifesta prevalentemente nel fiore degli anni, limitando significativamente le attività quotidiane, incluse quelle lavorative. La gravità della patologia induce spesso i pazienti a modificare la propria vita lavorativa, riducendo l'orario o limitandosi alle occupazioni che non comportano uno sforzo fisico. “Parliamo di una malattia cronica che ha un elevato impatto sulla qualità della vita dei pazienti”, sottolinea il dottor Renato Mantegazza. “La miastenia grave provoca debolezza muscolare e scarsa resistenza all’attività fisica, e questo influisce fortemente sulla vita quotidiana. La sintomatologia è molto varia: può includere fenomeni clinicamente meno gravi, come la caduta delle palpebre (ptosi palpebrale) e la visione doppia (diplopia), ma anche problematiche decisamente più impegnative, come l’insufficienza respiratoria. In generale, posso dire che ogni aspetto della vita di questi pazienti è influenzato dalla malattia: si va dalla difficoltà a pettinarsi e a prendersi cura della propria persona, agli impedimenti nella deambulazione e nella salita o discesa delle scale, arrivando fino alle problematiche di alimentazione, con difficoltà a masticare e deglutire”.
“Sulla vita lavorativa, l’impatto della miastenia è molto variabile”, prosegue Mantegazza. “Dipende dalla compromissione clinica del paziente, ma anche dalle caratteristiche dell’impiego che svolge. È evidente che un paziente che pratica un lavoro tendenzialmente sedentario, ad esempio un impiegato dietro a una scrivania, potrebbe risentire meno di alcuni sintomi, come la difficoltà di deambulazione, ma più di altri, magari anche meno gravi, come la diplopia o la ptosi palpebrale”.
In letteratura, le informazioni relative alla vita lavorativa dei pazienti miastenici sono ancora molto scarse. “Se chiedessi a un qualunque neurologo quanti pazienti miastenici riescono ancora a lavorare, probabilmente avrebbe qualche difficoltà a rispondermi”, afferma Alberto Raggi. “Quello del lavoro è un aspetto ancora poco indagato e molto complesso: perciò è nata l’idea di questa metanalisi. La ricerca degli articoli da inserire nel nostro studio ha prodotto 1.045 risultati”, aggiunge Raggi. “Di questi articoli, però, solo 19 soddisfacevano i criteri di inclusione relativi alla condizione lavorativa. La scarsa ampiezza del campione ha portato a un’estrema eterogeneità dei dati, ma purtroppo non abbiamo potuto ovviare al problema, visto che solo pochissimi studi riportano dati sulla condizione occupazionale”. “Inoltre - interviene la dottoressa Guastafierro - anche le indagini che includono dati sul lavoro non specificano, spesso, se la disoccupazione dei pazienti sia dovuta a prepensionamento, a complicazioni cliniche o a una scelta deliberata”.
Nonostante le difficoltà, il team di ricercatori dell’Istituto Besta è riuscito a estrarre, dagli studi analizzati, alcune interessanti informazioni sulla condizione lavorativa dei pazienti con miastenia grave, anche in rapporto ad alcune variabili, come il sesso, l’età e il grado d’istruzione dei pazienti stessi, il tipo di sintomi manifestati e la loro durata in anni, i farmaci assunti e l’intervento di timectomia (rimozione chirurgica della ghiandola del timo) eventualmente subìto. “Purtroppo - spiega il dottor Raggi - i dati emersi dal confronto di queste variabili sono da considerare con cautela. Infatti, non abbiamo a disposizione né i microdati estratti dai singoli studi, né tantomeno informazioni raccolte ex novo. Di conseguenza, non è stato possibile effettuare l’analisi considerando le informazioni relative ai singoli pazienti, ma i dati estrapolati dalle diverse indagini sono stati confrontati solo a livello aggregato. Questo - prosegue il ricercatore - potrebbe parzialmente spiegare perché non abbiamo evidenziato differenze significative. Tuttavia, alcuni risultati lasciano presupporre che, con uno studio sperimentale, potrebbero emergere discrepanze rilevanti. Questo vale, ad esempio, per l’età, il sesso e il livello di istruzione dei pazienti, oltre che per la durata della miastenia: le analisi dei sottogruppi hanno infatti suggerito una possibile percentuale più elevata di occupati tra le donne, i giovani, i soggetti con titolo di studio più elevato e quelli con meno anni di malattia alle spalle”.
In generale, i risultati della metanalisi mostrano che, tra i pazienti affetti da miastenia grave, la percentuale di persone occupate è di circa il 50%, con una variabilità compresa fra il 40 e il 60 per cento. Se confrontata con i dati relativi alla popolazione generale, per la quale i tassi di occupazione riportati si aggirano intorno al 75%, questa percentuale lascia presumere che la miastenia sia responsabile di una diminuzione del numero di soggetti occupati del 15-35%: una differenza notevole, soprattutto tenendo conto che l'età media dei partecipanti coinvolti negli studi analizzati è di circa 48 anni, quindi nel pieno della vita lavorativa. “La spiegazione di questo dato - commenta il dottor Raggi - potrebbe essere riconducibile all’età di esordio e alla gravità clinica della miastenia, ma anche al fatto che la patologia colpisce prevalentemente le donne, tra le quali il tasso di occupazione è già normalmente più basso. Non c’è una risposta univoca, quindi, ma il dato è sicuramente interessante”.
Va considerato che la disoccupazione e la perdita di produttività, oltre a ovvie implicazioni in termini di costo sociale, possono avere ricadute anche sul decorso della patologia e sulla qualità di vita dei pazienti. “In linea generale - spiega Alberto Raggi - si può ipotizzare che la disoccupazione abbia un impatto negativo sulla salute delle persone con miastenia grave, sia per il disagio psicologico ed emotivo che la mancanza di lavoro può scatenare, sia per la minore disponibilità economica. Ad esempio, uscendo dal contesto italiano, dato che la maggior parte degli studi che abbiamo preso in esame appartiene alla letteratura nordamericana, appare chiaro che, se non puoi pagare l’assicurazione sanitaria, non puoi permetterti di andare in ospedale e avere accesso alle cure”.
“Tra le malattie autoimmuni - aggiunge il dottor Mantegazza - la miastenia grave è la più sensibile alle variazioni del tono dell’umore. Nel giro di poche ore si possono registrare situazioni cliniche repentinamente molto diverse in relazione alla disposizione d’animo. C’è un asse diretto tra aspetti psicologici, attivazione del sistema immunitario e malfunzionamento dei muscoli. Anche la risposta alla terapia può essere largamente influenzata dallo stato emotivo, e di questo dobbiamo tenere conto nella gestione dei pazienti con miastenia. Il malato va conosciuto e va capito: per farlo è necessario comprendere anche il suo approccio psicologico alla patologia, con la consapevolezza che l’autovalutazione fornita dal paziente non sempre riflette le reali condizioni cliniche. Ci sono persone con sintomi molto gravi che riescono a mantenere alto il tono dell’umore e che finiscono col considerarsi meno compromessi di quanto in realtà non siano; al contrario, ci sono pazienti che, pur avendo con una sintomatologia lieve, valutano negativamente la loro situazione e cadono facilmente in uno stato depressivo. È importante tenere presente questa complessità per poter curare la persona nella sua interezza”.
“Ci auguriamo di poter approfondire i dati emersi da questa prima analisi”, conclude Mantegazza. “Questo tipo di ricerca, che unisce aspetti medici e sociologici, è fondamentale per sviluppare nuove linee guida e investire in nuovi approcci volti a migliorare la gestione dei pazienti con malattie croniche. Purtroppo, però, i fondi per la ricerca, anche in questo campo, sono sempre più risicati e non sempre è possibile portare avanti idee e progetti di indagine, per quanto innovativi possano essere”.
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