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Il prof. Giovanni Palladini (Pavia): “Il trattamento della patologia si basa sulla combinazione di diversi approcci, fra cui chemioterapia e immunoterapia”

L'amiloidosi AL è una malattia grave e progressiva: è una forma di amiloidosi causata dalla deposizione nei tessuti di catene leggere libere, cioè di un frammento di anticorpi. Questi anticorpi sono prodotti da una piccola popolazione cellulare neoplastica chiamata clone di plasmacellule, ovvero cellule che normalmente sono deputate alla produzione di anticorpi. Nei pazienti affetti, queste cellule possono dare origine a un piccolo tumore che produce una catena leggera, in grado di formare dei depositi di amiloide in molti organi.

Praticamente tutti gli organi possono essere interessati, con l'eccezione del cervello, ma quelli colpiti più spesso sono il cuore e i reni”, spiega il prof. Giovanni Palladini, Direttore del Centro per l’Amiloidosi del Policlinico San Matteo di Pavia (Clicca QUI o sull’immagine per guardare la video-intervista). “Il cuore è quello che condiziona di più la prognosi, perché mette più in pericolo la vita dei pazienti. I sintomi dipendono dall'interessamento d'organo e possono essere scompenso cardiaco, perdita di proteine con le urine, sindrome nefrosica e ingrossamento del fegato (epatomegalia). Sono tutti sintomi aspecifici, che mimano malattie non rare”.

L'amiloidosi AL è senza dubbio una malattia rara. In Italia sono state fatte delle stime sulla sua frequenza sulla base dell'esperienza del Centro di Pavia: gli esperti si aspettano circa 600 nuovi pazienti ogni anno, e il solo Policlinico San Matteo ne prende in carico circa 300-350 all'anno.

Una strategia terapeutica, fortunatamente, esiste: è possibile trattare l'amiloidosi AL attaccando le cellule che la producono – il clone di plasmacellule – con l'utilizzo di approcci di chemioterapia e di immunoterapia diretti contro questa piccola popolazione neoplastica.

Si possono usare dei farmaci chemioterapici, che attaccano direttamente la replicazione cellulare, o dei farmaci come gli inibitori del proteasoma, che attaccano il modo in cui la cellula gestisce internamente le proteine tossiche, tra cui proprio le catene leggere amiloidogeniche. Oppure, come è stato fatto più recentemente, possiamo usare delle immunoterapie, come ad esempio il daratumumab, che sono basate su anticorpi che riconoscono delle molecole sulla superficie di queste cellule”, conclude Palladini. “Oggi questi approcci si usano combinati e, grazie a uno studio molto recente, abbiamo finalmente la prima terapia specificamente approvata per l’amiloidosi AL, che è basata proprio sul daratumumab”.

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