Sono circa 20.000 i detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane, ovvero il 34,5% del totale. Oltre il 50% di questi risulta positivo al test alla tubercolina, che indica un pregresso contatto con il bacillo tubercolare. Queste persone non presentano una malattia attiva, ma sono a rischio di svilupparla in caso di forti stress in grado di ridurre l'efficienza del proprio sistema immunitario.

Questi sono solo alcuni dei preoccupanti dati presentati a Roma al Congresso della SIMSPe, patrocinato dalla SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali): oltre 200 specialisti, tra medici, infettivologi, psichiatri, dermatologi, cardiologi e infermieri, si sono riuniti in occasione della XVIII Edizione del Congresso Nazionale SIMSPe-Onlus 'Agorà Penitenziaria'.

I dati SIMSPe sui detenuti in Italia risultati tubercolino-positivi, indicano un rischio che è 5,7 volte superiore per chi ha avuto precedenti detenzioni, 4,9 volte superiore per gli stranieri e 3,8 volte superiore per i detenuti di età superiore a 40 anni. La detenzione è un'occasione straordinaria per il controllo clinico, l'educazione sanitaria e le eventuali profilassi o terapie delle malattie infettive, come la tubercolosi, eventualmente diagnosticate.

In Italia sono presenti 38 case di reclusione, 161 Case Circondariali, 7 Istituti per le misure di sicurezza. I detenuti presenti, a maggio 2017, sono 56.863, con un esubero di quasi 7mila posti rispetto ai 50.069 regolamentati. Le donne sono 2.394 (4,2 %), gli stranieri 19.365 (38,67%). Secondo le ultime stime disponibili (2012), il 32,8% ha dai 30 ai 39 anni; il 25,9% dai 40 ai 49 anni; il 21,7% dai 21 ai 29; il 18% dai 50 in su; l'1,6% dai 18 ai 20 anni.

Alto il livello di suicidi tra i detenuti: il numero più alto, nel periodo tra il 1980 e il 2013, si è registrato nel 2001 (70 casi) e nel 2010 (più di 60), con un minimo storico nel 1990 (circa 20). Anche i tentativi di suicidio sono cresciuti, e addirittura raddoppiati nell'arco di 30 anni. Nel 2012, ultimo anno osservato, il tasso più alto di tentativi di suicidio, con circa 1300 episodi. Poco meno nel 2010, con circa 1150 casi. Tra il 1980 e il 1990, invece, i numeri oscillano tra i 180 e i 600 casi.

Secondo i risultati dello studio multicentrico 2014 (Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Lazio, ASL Salerno), tra i detenuti è presente almeno una patologia nel 67.5% dei casi. I disturbi psichiatrici riguardano il 41.3% della popolazione nelle carceri; le malattie dell’apparato digerente il 14.5%; le malattie infettive l'11.5%; le malattie cardiovascolari l'11.4%; le malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie l'8.6%; le malattie dell'apparato respiratorio il 5.4%; le malattie osteoarticolari il 5%; le malattie del sistema nervoso il 4%; le malattie genito-urinarie il 2,9%; le malattie dermatologiche l'1,8%.

Per quanto riguarda le malattie infettive tra i residenti in carcere, l'epatite C riguarda il 54,6% delle diagnosi, l'epatite B il 15%, l'HIV il 14,5%, la tubercolosi il 4,9%; la sifilide il 3,3%.

“È una sfida impegnativa”, hanno spiegato gli esperti nel corso del congresso SIMSPe. “Si tratta di un quantitativo ingente di individui, peraltro soggetti ad un elevato turn-over e talvolta restii a controlli e terapie. Un lavoro enorme, di competenza della salute pubblica: senza un’organizzazione adeguata. Pur avendo i farmaci a disposizione, si rischia di non riuscire a curare questi pazienti. La presa in carico di ogni persona che entra in carcere deve dunque avvenire non nel momento in cui questi dichiara di star male, ma dal primo istante in cui viene monitorato al suo ingresso nella struttura. La nuova concezione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) significa che lo Stato riconosce che anche nelle carceri è necessaria un certo tipo di assistenza. Fino al 2016 non c’era alcuna regola: questo segnale può essere un grande progresso”.

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