Il corpo si esprime in un contesto storico e sociale, qui va analizzata la malattia
Di questo si parlerà domani all'incontro 'Geografie della salute' organizzato da Fondazione Sigma Tau
di Antonio Guerci - Professore ordinario di Antropologia, Storia della Medicina, Mediazione culturale all’Università di Genova
“Ogni società umana integra la malattia nella propria visione del mondo, conferendole un senso e un valore. Ciò significa che disegna la mappa geografica della salute e della malattia sulla base del proprio codice culturale e dei propri simboli. Dal punto di vista simbolico, il corpo è una realtà mutevole da cultura a cultura. La sua fisiologia non si esplica esclusivamente nel vergine isolamento biologico ma anche, e forse soprattutto, all’interno di un preciso contesto storico e sociale. Proprio - e solo - all’interno di questi contesti è possibile analizzare la malattia sotto due diversi punti di vista. Il primo avvicina la malattia come zona di interazione, e talvolta di scontro, fra l’istanza biologica e quella culturale; il secondo prende invece in considerazione le diverse modalità locali di una richiesta che si può considerare universale, cioè l’eliminazione della malattia”.
Così il prof. Antonio Guerci, Professore ordinario di Antropologia, Storia della Medicina, Mediazione culturale all’Università di Genova, introduce il tema principale di questa edizione di Spoletoscienza, il festival organizzato annualmente dalla Fondazione Sigma Tau, e quelli che saranno i principali temi di discussione dell’appuntamento di domani 3 luglio.
“I rapporti dell’antropologia medica con le due discipline madri – spiega Guerci - sono stati più facili sul versante dell’antropologia che su quello della medicina. Ciò deriva, almeno in parte, dalla necessità storica dell’antropologia di essere disciplina di frontiera, con la conseguente maggiore apertura (o, quantomeno, con l’assenza di pregiudizi) nei confronti di prospettive di studio atipiche e non convenzionali. La medicina ha aspirato spesso a porsi come scienza hard (da cui i tentativi di fondazione epistemologica sulla fisiologia, sulla biologia molecolare o sulla biochimica), con una visione unitaria sulla salute e sulla malattia che risulta di difficile mediazione con approcci differenti. La posizione eccentrica dell’antropologia ha attratto critiche recenti alla stessa definizione disciplinare. È stato infatti notato che le radici dell’antropologia medica non si trovano soltanto, e neppure principalmente, nella medicina, ma affondano anche nella pratica infermieristica, nel dibattito e nelle politiche sulla salute pubblica e, in generale, in tutte le attività che riguardano il mantenimento della salute e la presa in carico della malattia o della crisi attraverso le normali transizioni vitali degli individui. Inoltre, una volta posto il problema dei rapporti fra biomedicina e medicine tradizionali, le prospettive amplissime (culturali, scientifiche e sociali) aperte dagli studi etnomedici e medico-antropologici non potevano non trasformarsi in approcci critici alla medicina occidentale. Innanzitutto, com’era da attendersi, la medicina occidentale è stata equiparata dall’antropologia a qualsiasi altro sistema medico, e cioè interpretata come il sistema di cura tipico di una società specifica (quella occidentale industrializzata) in uno specifico tempo della sua storia (quello del capitalismo avanzato). Di fronte a una lettura di questo genere, fortemente relativizzante, la biomedicina si è trovata costretta, almeno nella sua parte più sensibile, a ridefinire i propri criteri di universalità e scientificità e a riconoscere il profondo senso storico implicito nel suo impianto concettuale."
"In secondo luogo - spiega ancora Guerci - l’antropologia ha criticato la prospettiva fortemente riduzionista della biomedicina contemporanea. Infine la ricerca medico-antropologica ha messo in crisi alcune categorie specifiche del pensiero biomedico, fra cui le
distinzioni tra diagnosi e trattamento, tra cura tecnologica e non tecnologica e tra specificità e generalità del processo terapeutico. Questa situazione non ha tuttavia impedito, in numerosi paesi europei, un vivace quanto costruttivo dialogo fra i differenti sistemi di cura che ha indotto a sua volta, in seno alla biomedicina, una nuova corrente critica associata all’antropologia, che vede coinvolti in modo particolare igienisti, epidemiologi, medici sociali e psichiatri. Le istituzioni hanno recepito con lentezza la necessità della mediazione culturale, ma si può facilmente prevedere come il flusso stesso degli immigranti costringerà le strutture statali e non nella posizione di chi deve rinegoziare le proprie strategie, imparando anche a mediare la propria posizione. Bisognerà allora fare in modo che questo non si traduca nell’ennesima emergenza ma che, al contrario, gli sviluppi prevedibili possano rivelarsi utili non solo per il paziente immigrato, ma per il paziente tout court, troppo spesso lasciato a margine della propria malattia. Le stesse istituzioni internazionali
hanno intrapreso, già da qualche tempo, un lungo percorso verso il riconoscimento delle medicine tradizionali. Non si può certo ipotizzare, nel caso degli auspici dell’OMS, che l’interesse istituzionale nasconda una oziosa curiosità verso manifestazioni esotiche. Di fatto, si tratta di un’esigenza reale che parte dal basso. In definitiva è urgente, necessario e civile trovare nuove sorgenti d’ispirazione, nuove strategie d’approccio deontologico, semeiotico e nosografico che siano in grado di tener conto delle diverse realtà antropologiche. Pochi settori del sapere umano reclamano conoscenze interdisciplinari come l’antropologia medica. Scienze mediche, naturali, etnoantropologiche, storiche, sociali convergono nel definire l’universo umano sub specie medicinae “
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