dott. Andrea GiustiPresto saranno disponibili anche le linee guida della la SITE, Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie

Esiste un proverbio che afferma che “la vita è come una coperta corta, che in qualunque verso sia tirata lascerà comunque scoperta una parte del corpo” e la saggezza racchiusa da alcuni antichi detti popolari può trovare corrispondenza anche in situazioni mediche dei nostri giorni che riguardano malattie rare come la beta-talassemia.

La beta-talassemia è una sindrome dovuta ad un’assenza o ad una riduzione della sintesi delle catene globiniche beta dell’emoglobina e che, nonostante si classifichi come malattia rara, rappresenta la più diffusa forma di talassemia. Le cause della malattia sono ascrivibili a mutazioni genetiche a carico del gene globinico che codifica per le catene beta in grado di determinare quadri più o meno gravi di anemia. Nonostante la diffusione di programmi di screening neonatale, la beta-talassemia risulta tutt’altro che in diminuzione: nel nostro paese le aree a più alta incidenza comprendono la Sardegna, la Liguria, la Sicilia ed il basso Piemonte ma l’aumento dei flussi migratori – specialmente dal Nord Africa – sta contribuendo in maniera consistente all’incremento dei casi. Il trattamento per eccellenza per la beta-talassemia consiste nella terapia trasfusionale periodica ma fino a un ventennio fa, i regimi trasfusionali non erano standardizzati e la terapia ferrochelante non aveva raggiunto il livello di efficacia e sicurezza dei nostri giorni per cui il paziente beta-talassemico – in particolar modo quello affetto da forme omozigotiche – aveva un’aspettativa di vita ridotta. Tuttavia, grazie ai progressi raggiunti nei percorsi di cura di questa malattia i tempi di sopravvivenza si sono notevolmente allungati anche se, come da proverbio, questo ha comportato l’affacciarsi di problematiche nuove.

“Oggi, in virtù della nascita di centri specialistici multidisciplinari dedicati alla cura dei pazienti talassemici e dei progressi nella terapia ferrochelante, e, in virtù, della migliore gestione delle complicanze endocrinologiche e cardiologiche, la qualità di vita dei pazienti è migliorata” –  spiega il dott. Andrea Giusti, specialista in "Osteoporosi, Malattie del Metabolismo Minerale e dello Scheletro" presso il Dipartimento delle Cure Geriatriche, Ortogeriatria e Riabilitazione dell’Ente Ospedaliero “Ospedali Galliera” di Genova – “Le priorità si sono spostate dalla mera sopravvivenza e dalla gestione di problematiche pesantemente influenti sulla qualità di vita e sulla sopravvivenza, alla gestione di una malattia cronicizzata, perché il paziente talassemico va incontro ad un processo di invecchiamento precoce di organi e apparati legato a fattori quali il sovraccarico di ferro o a fattori farmacologici e connaturati alla malattia. Pertanto, questo tipo di paziente incorre nello sviluppo di sarcopenia, artrosi, malattie croniche quali le cardiopatie, l’insufficienza renale, l’epatopatia (da virus C) e malattie endocrinologiche come l’ipogonadismo. Inoltre, il paziente talassemico risulta spesso affetto da osteoporosi ed a aumentato rischio di frattura.”

L’osteoporosi è una malattia sistemica ad eziologia multifattoriale ed andamento progressivo che si contraddistingue per la riduzione della massa ossea e per il deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo e che provoca un aumento del rischio di frattura. Sull’ultimo numero della rivista Annals of the New York Academy of Science è stato pubblicato un interessante lavoro firmato dal dott. Giusti che descrive l’osteoporosi associata alla beta-talassemia, una condizione clinica poliedrica dal momento che, in questo caso l’osteoporosi diventa una comorbidità della beta-talassemia.

“Normalmente l’osteoporosi e le fratture osteoporotiche sono associate a fattori primari quali l’età la menopausa nella donna, e ad una serie di fattori di rischio quali la familiarità, le abitudini di vita, il peso corporeo, o condizioni secondarie predisponenti (malattie o terapie farmacologiche)” – continua il dott. Giusti – “ma nel soggetto talassemico l'osteoporosi assume caratteristiche di particolare complessità perché le condizioni che la producono sono numerosissime e comprendono lo sviluppo di ipogonadismo, la carenza di GH (Growth Factor) e IGF1 (Insuline-like Growth Factor-1), il sovraccarico di ferro, l’espansione del midollo osseo. Tuttavia, a queste se ne aggiungono altre, come la sarcopenia, la carenza di vitamina D, l’elevato grado di comorbilità somatica, o le problematiche legate a nuovi chelanti e quelle legate a un organismo che invecchia velocemente. Inoltre, ci sono fattori genetici rilevanti, quali due polimorifismi, specificamente associati alla talassemia. Il problema dell’osteoporosi in precedenza non si poneva perché la questione era incentrata sulla sopravvivenza ma ora ci si focalizza maggiormente sulle complicanze per il paziente con beta-talassemia.”

Uno dei principali scogli allo studio di questa rara condizione è costituito dalla scarsità di database di ricerca internazionali unificati, accentuate anche dall’assenza di programmi nazionali di screening e monitoraggio dei pazienti, specialmente nei paesi, come Italia, Grecia e Regno Unito, a maggiore concentrazione di soggetti beta-talassemici. Inoltre, la scarsità dei fondi nazionali di ricerca denota un mancato recepimento delle esigenze mediche da parte del mondo politico che, da una parte ha costretto le associazioni di pazienti di beta-talassemici e le aziende farmaceutiche a farsi carico di buona parte delle spese di ricerca, e dall’altra costringe i ricercatori a gestire studi epidemiologici e clinici sull’argomento molto limitati. Tuttavia, nell’intento di porre in evidenza l’approccio multidisciplinare necessario per contrastare questa malattia e le sue conseguenze è stata di recente fondata la SITE, Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie, una società che riunisce sotto la stessa bandiera i maggiori esperti sull’argomento e che quest’anno pubblicherà le prime Linee Guida da cui emergeranno indicazioni fondamentali di carattere diagnostico e terapeutico.

Ai fini diagnostici si consiglia la Densitometria Ossea (MOC, Mineralometria Ossea Computerizzata, n.d.r.) come esame standard a partire dai 14 anni.” – prosegue Giusti – “Prima dei 14 anni la MOC è indicata solo in presenza di condizioni particolari quali fratture ripetute. Questo per tutelare il paziente dalle radiazioni e per evitare di ottenere dati poco interpretabili. La valutazione basale deve comprendere anche i classici fattori di rischio dell’osteoporosi (familiarità, malattie secondarie, abitudini di vita, peso corporeo) nella popolazione generale ed esami di laboratorio specifici come il dosaggio del calcio, del fosforo, della creatinina, dell’albumina e della vitamina D, gli esami ormonali (PTH, ormoni sessuali) ed i marcatori di rimodellamento osseo. In aggiunta si consiglia una lastra della colonna per identificare eventuali significative deformità vertebrali e, su base specialistica, possono essere suggeriti esami come una radiografia del femore .”

Nel soggetto beta-talassemico la frequenza di carenza di vitamina D può raggiungere livelli molto alti e giocare un ruolo di primo piano sia in relazione allo stato di salute dell’apparato scheletrico che della forza muscolare. Il dosaggio della vitamina D si è rivelato essenziale nella valutazione del rischio di osteoporosi e frattura poiché le forme di osteoporosi senile sono risultate strettamente associate alla sua carenza e alla comparsa di iper-paratiroidismo secondario, ma con il tempo il ruolo della vitamina D si è legato anche al rischio di cadute perché il deficit di questo ormone influisce anche a livello muscolare. Studi clinici di recente pubblicazione sono propensi a suggerirne una supplementazione nel paziente talassemico ma non è ancora possibile definire con chiarezza un dosaggio ottimale.

Purtroppo, ad oggi la scarsità di trial clinici con casistiche numerose rappresenta un problema di considerevole entità perché non permette di ottenere la potenza statistica per dimostrare l’efficacia anti-fratturativa dei farmaci comunemente usati per il trattamento dell’osteoporosi e la prevenzione delle fratture, ma nonostante questo la ricerca è attiva su fronti diversi. “Non si cura l’osteoporosi ma si prevengono le fratture” – conclude il dott. Giusti – “e la riduzione delle fratture è l’outcome principale di tutti gli studi che vedono protagonisti i bisfosfonati, farmaci potenti inibitori del riassorbimento osseo, considerati di prima scelta perché hanno dimostrato un’ottima efficacia nel migliorare la MOC e il profilo sierologico dei pazienti talassemici. Sono farmaci che sul breve termine hanno dato la migliore risposta terapeutica basata su una cospicua mole di dati ottenuti da studi clinici randomizzati e controllati. Ciononostante, nel soggetto con osteoporosi in associazione alla beta-talassemia si raccomanda di non superare i 24-36 mesi di terapia e di riconsiderare il trattamento dopo la cosiddetta drug-off holiday, al fine di evitare l’insorgenza di potenziale effetti avversi.” 

Nuove frontiere terapeutiche stanno per essere erette contro questa malattia e sono rappresentate da Denosumab – un anticorpo monoclonale che neutralizza l’attività del RANKL, fondamentale per maturazione e differenziazione degli osteoclasti – che sta fornendo buoni risultati in termini di tollerabilità ma che non è ancora stato testato in trial randomizzati, da Teriparatide che stimolando la formazione di nuovo tessuto osseo si configura come uno strumento di grande efficacia da testare in trial clinici allargati e, infine, dagli inibitori della catepsina K e della sclerostina (questi ultimi non ancora commercializzati).

Come emerso dalla ricerca condotta dal dott. Giusti la valutazione di queste nuove e promettenti opzioni terapeutiche deve passare attraverso la realizzazione di studi clinici randomizzati con numerosità tali da produrre risultati supportati da una statistica robusta e il primo passo per giungere a questo traguardo è la realizzazione di una rete a maglie strette composta da tutti i principali specialisti coinvolti nello studio della malattia (endocrinologi, ematologi, chirurghi ortopedici, nefrologi, ginecologi, esperti della nutrizione e della medicina riabilitativa). L’essenzialità dell’approccio multidisciplinare deve rispecchiarsi nella capacità di stabilire quali siano i centri specializzati nel trattamento di questo complesso di patologie presso cui indirizzare i pazienti che, a loro volta, devono contribuire a indirizzare la loro quotidianità verso pratiche comportamentali sane come una regolare attività motoria ed evitando, invece, fattori aggravanti della malattia come il fumo, l’alto consumo di alcolici e la sedentarietà.

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