Team del professor Renato Ostuni all'Ospedale San Raffaele

Uno studio del San Raffaele di Milano ha individuato un potenziale bersaglio terapeutico per rallentare la progressione della neoplasia

Milano – In un articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla prestigiosa rivista Nature, i ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele hanno illustrato l’importanza di un sottogruppo di cellule del sistema immunitario, i macrofagi IL-1beta+, nella progressione dell’adenocarcinoma duttale del pancreas (PDAC).

Il gruppo di scienziati – sotto la guida del professor Renato Ostuni, responsabile del laboratorio di Genomica del Sistema Immunitario Innato all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e professore associato all’Università Vita-Salute San Raffaele – ha scoperto un meccanismo inedito che promuove la crescita del tumore del pancreas. Tale meccanismo è basato sull’interazione fra i macrofagi IL-1beta+ e alcune cellule tumorali caratterizzate da uno specifico profilo infiammatorio e da elevata aggressività.

I risultati della ricerca – sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, dal Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC) e dal Ministero della Salute – suggeriscono che bloccare questa interazione potrebbe essere una nuova strategia per contrastare l’insorgenza del tumore al pancreas in persone a rischio o per potenziare le risposta all’immunoterapia in pazienti già colpiti da questo tipo di cancro.

IL RUOLO DEI MACROFAGI NEL TUMORE AL PANCREAS

I macrofagi sono un tipo di cellule del sistema immunitario innato, fondamentali per proteggere l’integrità dei tessuti e attivare rapide risposte protettive contro agenti patogeni e altre minacce esterne. Nei tumori, tuttavia, le funzioni dei macrofagi sono profondamente riprogrammate, al punto che queste cellule sostengono la progressione della malattia anziché contrastarla.

I macrofagi associati al tumore (o TAM) sono bersagli importanti dell’immunoterapia, poiché una loro maggiore abbondanza è generalmente associata a resistenza ai trattamenti, a metastasi e a una minore sopravvivenza dei pazienti. Nel caso del tumore al pancreas, tuttavia, l’eterogeneità dei TAM e la complessità della loro interazione con il microambiente tumorale hanno reso difficile fino a oggi colpire queste cellule a scopo terapeutico.

“Oltre a essere caratterizzato da un sistema immunitario compromesso che limita l’efficacia anche delle più avanzate immunoterapie, il tumore del pancreas presenta una forte componente infiammatoria”, specifica Renato Ostuni. “Ciò è particolarmente rilevante poiché l’insorgenza di danni ai tessuti – e le risposte infiammatorie che ne conseguono, quali le pancreatiti – sono noti fattori di rischio per lo sviluppo neoplastico”. Da cosa dipenda la capacità dell’infiammazione di promuovere la crescita del tumore del pancreas era finora poco chiaro: con questo studio, i ricercatori hanno identificato uno dei meccanismi cruciali per questo processo.

LA RICERCA DEL SAN RAFFAELE

Per arrivare a questi risultati, il gruppo di ricerca di Ostuni ha utilizzato tecnologie innovative a singola cellula e di trascrittomica spaziale, in grado di svelare le caratteristiche molecolari di migliaia di singole cellule nel loro microambiente naturale. In campioni di pazienti con tumore del pancreas, i ricercatori hanno così identificato un nuovo sottogruppo di macrofagi, chiamati IL-1beta+ TAM e capaci di stimolare l’aggressività delle cellule tumorali nelle loro vicinanze. Più precisamente, tali macrofagi inducono una riprogrammazione infiammatoria e promuovono il rilascio di fattori che, a loro volta, favoriscono lo sviluppo e l’attivazione degli IL-1beta+ TAM stessi.

“Si tratta di una sorta di un circolo vizioso autoalimentato. I macrofagi rendono le cellule tumorali più aggressive, e le cellule tumorali riprogrammano i macrofagi in grado di favorire l’infiammazione e la progressione della malattia”, spiega Ostuni. Nello studio è stato anche scoperto che gli IL-1beta+ TAM non sono distribuiti in modo casuale, ma sono localizzati in piccole nicchie vicino alle cellule tumorali infiammate. È proprio la vicinanza fisica tra macrofagi e cellule tumorali che potrebbe sostenere la progressione della malattia.

Abbiamo condotto esperimenti per studiare come interferire con questo circuito. I risultati, seppure ottenuti per ora in studi solo di laboratorio, sono incoraggianti. Questo approccio ha portato infatti a una riduzione dell’infiammazione e a un rallentamento della crescita del tumore del pancreas”, concludono Nicoletta Caronni e Francesco Vittoria, tra gli autori principali dell’articolo.

L’INTEGRAZIONE TRA COMPETENZE

Lo studio è il frutto della stretta collaborazione tra ricercatori e medici dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. “Ciò ci ha consentito di studiare con metodi molto avanzati le caratteristiche del sistema immunitario dei pazienti, identificando alcuni inediti bersagli terapeutici”, dicono i professori Massimo Falconi, direttore del Pancreas Center, e Stefano Crippa, chirurgo pancreatico della medesima unità.

Un approccio, quello del gruppo di Ostuni, in cui la pianificazione delle attività e l’interpretazione dei risultati degli esperimenti al bancone sono perfettamente integrate con l’analisi dei dati attraverso la bioinformatica. “Un metodo interdisciplinare ed efficace, indispensabile per condurre ricerca scientifica d’avanguardia”, specificano Federica Laterza e Giulia Barbiera, biologhe computazionali e tra le autrici principali dell’articolo.

GLI SVILUPPI FUTURI

I dati appena pubblicati suggeriscono che il blocco di questo “loop” infiammatorio potrebbe essere utilizzato per aumentare l’efficacia delle immunoterapie contro il PDAC, ma anche come strategia preventiva in persone a rischio.

“Le mutazioni del DNA sono un elemento necessario ma non sufficiente per lo sviluppo di un tumore. Le risposte infiammatorie e i danni ai tessuti possono cooperare con le mutazioni per aumentare il rischio di molte neoplasie, tra cui quelle del pancreas”, specifica Ostuni.

Concludono quindi i ricercatori: “Abbiamo fatto un bel passo avanti nella comprensione dei processi biologici alla base della malattia. Tuttavia, siamo a uno stato di ricerca preclinica ancora distante dall’applicazione nei pazienti. I prossimi anni saranno essenziali per identificare le potenzialità e le modalità più appropriate per agire su questo nuovo bersaglio terapeutico”.

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