Bianca Balti

Il caso della modella Bianca Balti riporta l’attenzione sul tema delle mutazioni correlate al cancro. Il prof. Giuseppe Novelli: “Non basta un gene per definire il rischio di sviluppare la patologia”

È una delle modelle più famose del pianeta e, inevitabilmente, la vicenda di cui è stata protagonista nei giorni scorsi sta sollevando un notevole interesse mediatico, oltre che una certa preoccupazione per la sua salute. Bianca Balti, celebre per le tante campagne pubblicitarie a cui ha partecipato e gli scatti per il prestigioso catalogo di Victoria’s Secret, ha confessato sui social di essersi sottoposta a un test da cui è emersa la presenza di una mutazione nel gene BRCA1, legata a un elevato rischio di sviluppare un tumore al seno e/o alle ovaie. Sulla base di ciò, la supermodella lodigiana ha scelto di sottoporsi a un duplice intervento di mastectomia preventiva al fine di rimuovere i seni e contrastare la possibile insorgenza del tumore: una scelta dura ma che mette sotto la lente del microscopio il ruolo dei test genetici grazie a cui è oggi possibile identificare la presenza di mutazioni correlate al cancro.

EREDITARIETÀ NEL TUMORE ALLA MAMMELLA

Le forme ereditarie di tumore alla mammella sono in larga parte dovute alla presenza delle mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2. Le donne con una mutazione in BRCA1 presentano una probabilità di circa il 72% di ammalarsi di tumore alla mammella mentre la mutazione di BRCA2 porta tale probabilità al 69%. Queste mutazioni sono correlate anche al tumore dell’ovaio e, nella popolazione di sesso maschile, al tumore della mammella e della prostata. Inoltre, le donne con una familiarità per il tumore alla mammella o all’ovaio hanno fino all’80% di possibilità di sviluppare una neoplasia sostenuta da una mutazione in BRCA1 o BRCA2. Una spiegazione risiede nel fatto che questi geni sono coinvolti nei processi di riparazione del DNA: se alterati, perciò, concorrono ad aumentare l’instabilità del genoma.

Altri geni sono coinvolti nella suscettibilità al cancro della mammella e comprendono PALB2, associato a una probabilità del 58% di sviluppare la patologia in caso di familiarità, ma anche i geni PTEN, BARD1 e RAD51C (quest’ultimo è legato anche ad un aumentato rischio di tumore ovarico). Il nesso tra cancro alla mammella e cancro all’ovaio è piuttosto evidente: per quest’ultimo esiste un’associazione anche con il gene BRIP1, oppure con i geni MLH1, MSH2 e MSH6, notoriamente collegati alla sindrome di Lynch, malattia che costituisce un fattore di rischio per il cancro del colon-retto.

TEST GENETICO: SI, MA CON LA CONSULENZA

È dunque sufficiente un test genetico per sapere se siamo a rischio di sviluppare un dato tumore o una malattia? Abbiamo discusso di questo con Giuseppe Novelli, Professore Ordinario di Genetica Medica dell’Università degli Studi “Tor Vergata” e Direttore della UOC Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma, che ai test genetici in ambito oncologico ha dedicato anni di studio e ricerche, riassunti nel volume “Genetica medica”, scritto a quattro mani col collega Bruno Dallapiccola, Direttore Scientifico dell’IRCCS Ospedale Bambino Gesù di Roma.

“Non basta una sigla o una singola percentuale per capire se un individuo si ammalerà o meno di un tumore”, spiega Novelli. “Il rischio va sempre calcolato sull’analisi familiare. Oltre alla presenza di un gene mutato, sapere che c’è già stato un caso in famiglia e stabilire il grado di consanguineità fa la differenza nella valutazione del rischio individuale. Un recente studio finlandese, condotto su oltre 300mila persone, ha confermato la grande importanza dell’analisi familiare. Il rischio empirico di sviluppare un tumore è integrato nell’analisi genetica grazie al “polygenic score”, cioè un punteggio di rischio genetico che considera diverse variabili ed è pesato sull’analisi familiare. Perciò, la valutazione del rischio di sviluppare un tumore deve prendere necessariamente in considerazione sia l’analisi dei geni che l’anamnesi familiare”.

Nel caso della Balti è stata eseguita un’analisi genetica ma sicuramente anche un’analisi del rischio calcolato. Esattamente come accadde per un’altra splendida donna, l’attrice Angelina Jolie, che nel 2013 annunciò di avere la stessa mutazione della Balti, con un rischio calcolato superiore all’80% di sviluppare entro 10 anni un tumore alla mammella o all’ovaio: questo l’ha indotta a sottoporsi all’operazione chirurgica di rimozione del seno e dell’ovaio. “Non tutte le donne che hanno la mutazione devono per forza affrontare la chirurgia”, precisa il genetista romano. “Va prima eseguita un’attenta e accurata anamnesi familiare, con l’analisi della consanguineità dei parenti, del gruppo etnico e delle abitudini di vita. Tutte queste informazioni possono essere raccolte nel corso della consulenza genetica”.

Una consulenza genetica è un processo medico attraverso cui si affrontano i temi della diagnosi, della prognosi e del trattamento di una malattia genetica. In questo ambito viene identificato il rischio di sviluppare una patologia o di trasmetterla ai figli e vengono discusse le scelte e le opzioni correlate a quella specifica malattia e ai rischi ad essa legati. Il pilastro fondante di una buona consulenza è dunque quello di una comunicazione schietta e comprensibile tra l’esperto e il paziente: occorre far comprendere in cosa consista la malattia e come si possa propagare nell’albero genealogico, definendo dunque il rischio per i familiari, e bisogna prospettare le varie opzioni terapeutiche disponibili, tenendo conto che sarà il paziente a dover compiere delle scelte, senza che sia il medico a imporle.

“Non tutte le mutazioni sono uguali e ogni risultato va inquadrato nel contesto generale”, aggiunge ancora Novelli. “Esistono mutazioni di significato incerto che andrebbero studiate dal punto di vista funzionale. Non sempre questo è possibile ma occorre studiare a fondo i geni per poter dare una risposta al paziente. Ecco perché una consulenza deve essere fatta prima di sottoporsi al test genetico. Attraverso la consulenza possiamo capire quale percorso diagnostico far seguire a una persona e suggerire così il test genetico più adatto. In caso di familiarità i test sono rimborsabili ma devono essere offerti nel quadro di una consulenza specifica. Poi, una volta fatto il test, la risposta viene restituita al paziente e al clinico. È un modello che funziona benissimo e serve a orientare il paziente stesso che, altrimenti, rischierebbe di sottoporsi a indagini inutili”.

Un test genetico opportunamente mirato, quindi, presenta innumerevoli vantaggi: il primo e più immediato è di restituire informazioni sul rischio di sviluppare una data malattia o un dato tumore; oppure può fornire utili indicazioni sulle strategie terapeutiche più adatte ad affrontare una specifica patologia; infine, può essere d’aiuto anche ai membri della famiglia di un paziente per individuare il loro rischio di ammalarsi, e tutto ciò permette di prendere provvedimenti, come la sorveglianza o la chirurgia, allo scopo di ridurre la probabilità che ciò accada.

PREVENIRE L’INSORGENZA DEL TUMORE ALLA MAMMELLA

Quali sono allora le opzioni preventive da prendere in considerazione nel caso del tumore alla mammella? Queste possono includere la doppia mastectomia profilattica che, con la rimozione dei seni, abbatte del 90-95% la probabilità di sviluppare un tumore: non si tratta di una scelta facile perché presuppone di ricorrere a una tecnica curativa particolarmente invasiva per una patologia che ancora non c’è. “È un intervento demolitivo e pesantissimo, sia sul piano psicologico che ormonale”, precisa Novelli. “Non tutti scelgono questa strada; molti preferiscono sottoporsi a controlli più stretti nel tempo, facendo sia la mammografia che la TAC spirale, che individua anche i piccoli segni di una lesione tumorale; altri fanno ricorso alla terapia anticoncezionale, che riduce le probabilità di sviluppo del tumore”.

Il punto focale è che il ventaglio di possibilità è molto ampio e c’è perciò bisogno di un’informazione personalizzata sul singolo caso. “Questa può generarsi più facilmente nel contesto del cosiddetto “Tumor Board” - dichiara Novelli - un gruppo di studio composto da figure mediche complementari che nel caso del tumore alla mammella comprendono ginecologo, oncologo, anatomo-patologo, radiologo, genetista e psicologo, ma che possono variare a seconda della tipologia di tumore. Questi gruppi lavorano in maniera multidisciplinare, ampliando le collaborazioni e predisponendo la base per un aperto confronto tra esperti prima di prendere decisioni importanti”. Lo strumento d’elezione di cui si avvalgono i Tumor Board è il PDTA (Percorso Diagnostico-Terapeutico Assistenziale), come quello disegnato dalla “Breast Unit” del Policlinico Tor Vergata, grazie a cui, per le persone che sono affette da tumore alla mammella – o che presentano un elevato rischio di sviluppare la patologia – si predispone un percorso clinico chiaro e ben articolato che va dalla diagnosi alla terapia.

In conclusione, nel caso del tumore alla mammella, come in altre patologie, l’analisi genetica rappresenta uno strumento utilissimo che, tuttavia, non può funzionare come un oroscopo: conoscere le reali condizioni di rischio di sviluppare un tumore significa districarsi nella giungla dei test genetici disponibili e analizzare con competenza tutte le informazioni raccolte. “Non possiamo pensare di fare una specie di ‘genoscopo’ – rimarca Novelli – ma dobbiamo indagare i geni con le modalità adeguate e sottoporre sempre le persone a un’approfondita valutazione per poter stimare la probabilità che nel tempo possano sviluppare un cancro”.

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