Il prof. Andrea Maria D'Armini: “Dopo l'intervento la maggior parte dei pazienti torna ad una vita assolutamente normale”

PAVIA – Lo scorso novembre la Regione Lombardia ha approvato il Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) per l’Ipertensione Polmonare Cronica Tromboembolica (IPCTE). Il documento, primo e unico in Italia per questa rara patologia cardio-polmonare, individua la Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico “San Matteo” di Pavia come Centro esperto per l'endoarteriectomia polmonare (EAP), un’operazione cardiochirurgica che solo pochi centri al mondo sono in grado di effettuare con competenza.

Fra gli autori del PDTA, il prof. Andrea Maria D'Armini, responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale di Chirurgia Trapiantologica Cardiopolmonare e dell’Ipertensione Polmonare del Policlinico “San Matteo” di Pavia. “Il nostro è diventato, dall’approvazione del PDTA regionale, il centro di riferimento della Lombardia, ma di fatto anche nazionale, per l’intervento di EAP. Facciamo la maggior parte di queste procedure in Italia, circa il 75-80%: l’anno scorso ne abbiamo effettuate più di 90. Dai dati epidemiologici della malattia, in una popolazione come quella italiana, dovrebbero però essere di più. Il fatto che non tutti questi pazienti giungano per una valutazione di operabilità è dovuto alla mancata diagnosi, ad una diagnosi errata o alla mancata consapevolezza di questo intervento salvavita”.

Si stima che un buon livello sia nella diagnosi della patologia che nella conoscenza dell’intervento dovrebbero portare alla chirurgia almeno 3 pazienti per milione abitanti l'anno. In Italia dovremmo quindi stimare almeno 180-200 interventi di EAP all’anno.

Il modello preso ad esempio per questo percorso è quello inglese: nel Regno Unito, per tutte le malattie rare, ci sono dei centri di riferimento in cui si concentrano le esperienze. Sette centri per tutte le forme di ipertensione polmonare possono somministrare i farmaci specifici ma uno solo, Cambridge, può operare i pazienti affetti da IPCTE. Questo metodo, oltre che migliorare i risultati concentrando l’esperienza, rende anche molto più semplice la raccolta dei dati e la possibilità di studi epidemiologici.

La causa della malattia è l’evoluzione cronica di uno o, molto probabilmente, più episodi di embolia polmonare acuta non diagnosticata, diagnosticata tardivamente o trattata medicalmente in maniera non ottimale. La quasi totalità di questi pazienti è comunque etichettabile come “trombofilica” per la presenza di una o più alterazioni nei fattori della coagulazione: più lo squilibrio è forte, prima la patologia si manifesta.

In un ambito di questo tipo ci sono poi anche dei fattori di rischio aggiuntivi quali l’insufficienza venosa cronica agli arti inferiori con o senza episodi di tromboflebite, l’obesità, la vita sedentaria, la pillola estroprogestinica, la splenectomia, alcune infezioni croniche e la presenza nel letto vascolare venoso di cavi o cateteri a permanenza come quelli dei pace-maker, delle derivazioni liquorali per idrocefalo o delle terapie mediche croniche.

L’ipertensione polmonare – spiega il prof. D'Armini – è un sintomo e non la malattia: ci sono cinque gruppi di patologie che la provocano, e la forma cronica tromboembolica (nella classificazione internazionale identificata come gruppo IV) è quella causata da una ostruzione meccanica cronica al flusso ematico all’interno delle arterie polmonari. Quando infatti si formano dei coaguli, questi seguono il flusso venoso sanguigno, arrivano al cuore destro e questo li pompa nel letto arterioso polmonare. I polmoni, per le caratteristiche anatomiche del circolo arterioso, funzionano come un filtro bloccandoli. Si ha così un’ostruzione al flusso trans-polmonare che si ripercuote sulla funzione cardiaca. Se un paziente ha delle embolie polmonari ricorrenti di piccola entità, inizialmente può anche non accorgersene perché il cuore destro compensa con un maggior lavoro la parziale ostruzione meccanica. Ad un certo punto però questo compenso viene meno sia per un affaticamento cronico del cuore sia per un ulteriore episodio di embolia polmonare che è un po’ come la goccia che fa traboccare il vaso. In questo caso prendere un anticoagulante risolve solo parzialmente il problema perché scioglie solo gli ultimi trombi, quelli ancora freschi, mentre quelli cronici sono già fibrotici e su di loro la terapia anticoagulante non ha alcun effetto. Questi pazienti sviluppano nel tempo anche una progressiva insufficienza respiratoria e devono ricorrere all’ossigeno terapia”.

Fortunatamente l’IPCTE può essere curata nella maggioranza dei pazienti con un intervento di cardiochirurgia conservativa, di “pulizia” delle arterie polmonari, che permette di tornare ad una vita assolutamente normale. A differenza di altre forme di ipertensione polmonare che interessano una popolazione più giovane, nell’IPCTE una grossa percentuale di pazienti sottoposti ad EAP ha più di 70 anni.

“Quando abbiamo iniziato il programma all’inizio degli anni ’90 i pazienti con più di 70 anni rappresentavano solo il 10% della casistica”, ricorda D'Armini. “Ora hanno superato il 40% e sono gli ultraottantenni ha rappresentare il 10% della casistica. Si è passati quindi ad una popolazione nettamente più anziana ma mantenendo dei risultati di eccellenza. Dal 1994, sono più di 700 i pazienti operati al S. Matteo con un range di età fra gli 11 e gli 84 anni; non abbiamo mai rifiutato un paziente solo perché troppo anziano”.

“Negli ultimi anni c’è stato un netto aumento nel numero di interventi, perché è aumentata la consapevolezza dei cardiologi, dei pneumologi e degli internisti; si è passati da 2 interventi nel 1994 a 93 nel 2015. Una delle terapie mediche che più debilita psicologicamente un paziente è l’ossigeno terapia. Nella nostra esperienza circa il 50% dei pazienti giunge all’intervento utilizzandola e dopo l’intervento circa l’80% non ne ha più bisogno”.

Attualmente esiste un unico farmaco specifico approvato per la terapia medica dell’IPCTE, l’Adempas (principio attivo riociguat). “Le indicazioni a tale terapia farmacologica riguardano tre sottogruppi di questi pazienti: quelli giudicati inoperabili, in quanto le lesioni croniche tromboemboliche sono troppo distali e periferiche e quindi non rimuovibili, i pazienti operati di EAP in cui è rimasto un certo grado di ipertensione polmonare nel post-operatorio e quelli in cui invece nel post-operatorio si era assistito ad una completa normalizzazione dell’emodinamica polmonare ma che a distanza, anche di anni, presentano una ricorrenza di ipertensione polmonare stessa”, conclude il prof. D'Armini.

Le percentuali di questi tre sottogruppi di pazienti sono comunque molto piccole e nella maggior parte dei pazienti, circa il 90%, l’intervento può essere eseguito con una guarigione completa e duratura dalla malattia. Allo stato attuale l’intervento di EAP rappresenta il “gold standard” terapeutico di questa malattia.

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