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Sperimentazioni

Biomarcatori, real-world data e dispositivi wearable sono solo alcuni degli elementi che potrebbero rivoluzionare la valutazione di nuove terapie 

Poco frequenti se prese singolarmente, molto diffuse quando si considerano nel loro insieme: le malattie rare non hanno mai abbastanza spazio nella ricerca e gli scienziati che se occupano hanno come obiettivo principale quello di sviluppare trattamenti efficaci e sicuri. Modificare l’impostazione classica degli studi clinici, strutturandoli in modo diverso e aprendo le porte a nuovi strumenti, come i dispositivi wearable, potrebbe permettere di migliorare i risultati della ricerca in questo ambito. Un recente articolo pubblicato su Nature News ha evidenziato come siano molte le innovazioni che hanno apportato – e probabilmente apporteranno – un sensibile contributo allo sviluppo clinico di farmaci per le malattie rare.

SPERIMENTAZIONI “N-OF-1”: UNA STRADA PRATICABILE?

Una delle ultime frontiere della medicina personalizzata vede come protagonisti della ricerca i cosiddetti oligonucleotidi antisenso (ASO), molecole che modulano l’RNA messaggero: ciò permette di regolare l’espressione di un gene senza agire sul DNA, evitando così gli effetti collaterali di una modifica permanente ed ereditabile e le questioni bioetiche che ne deriverebbero. Un esempio celebre di oligonucleotide antisenso è rappresentato da nusinersen, farmaco approvato per l’atrofia muscolare spinale (SMA).

Negli ultimi anni, gli scienziati hanno iniziato a considerare quella degli ASO come un’opzione terapeutica potenzialmente utile per il trattamento di gravi patologie dovute a mutazioni genetiche ultra-rare, se non addirittura uniche. Di conseguenza, in qualche caso (ad esempio nella malattia di Batten o nell’atassia telangiectasia) questo tipo di farmaci è stato testato in singoli pazienti, mediante studi clinici detti “n-of-1”, dove “n” indica appunto il numero di pazienti coinvolti, ossia uno solo.

Questa tipologia di sperimentazione può funzionare? Non c’è ancora una risposta univoca alla domanda. Attualmente non esiste un metodo rodato nella gestione di simili studi clinici, in cui la previsione di efficacia e sicurezza di una terapia deriva necessariamente da un solo paziente: un fattore fortemente limitante se vengono considerate le caratteristiche degli studi classici, il cui obiettivo è avere un numero congruo di pazienti che vi partecipano, in modo da ampliare il più possibile la casistica per accertare al meglio la validità di un farmaco. 

BIOMARCATORI PER LA VALUTAZIONE DI NUOVE TERAPIE

In generale, gli studi clinici sulle malattie rare devono diventare sempre più personalizzati ed è auspicabile che richiedano meno tempo: le sperimentazioni, infatti, possono riguardare solo poche decine di partecipanti - spesso anche meno - perché i requisiti per l’arruolamento nei trial clinici sono sempre molto stringenti e i pazienti pochi. Inoltre, se una malattia progredisce velocemente la verifica dell’efficacia di una terapia può avvenire in tempi brevi, ma se una patologia evolve molto lentamente lo studio clinico si complicherà. È quindi necessario capire quali siano i parametri da valutare in relazione alle caratteristiche della singola malattia, per avere una visione a 360 gradi della situazione.

Una possibile strategia per misurare l’efficacia di una terapia prevede l’utilizzo di appositi biomarcatori: testando, ad esempio, una tecnica di editing del genoma in una data malattia genetica verrebbero ripristinati i livelli della proteina carente nei pazienti, livelli che rappresentano un parametro biologico misurabile - un biomarcatore, appunto - che potrebbe essere ragionevolmente correlato a un beneficio clinico della terapia.

PLACEBO, REAL-WORLD DATA E STUDI ADATTIVI

Dato il numero esiguo di pazienti affetti da una malattia rara, alcuni esperti sostengono la necessità di ridurre il numero di persone che nelle sperimentazioni fanno parte del gruppo di controllo, ossia che non ricevono il farmaco ma il placebo. A favore di questa opzione c’è anche il fatto che, sapendo della possibilità di venire trattato con il placebo, qualche paziente potrebbe rifiutarsi di entrare in un trial clinico, vanificando l’ideazione dello studio o riducendo il numero di persone coinvolte. Allo stesso modo, nelle sperimentazioni che prevedono diversi dosaggi di un farmaco, alcuni specialisti ipotizzano di evitare del tutto le dosi molto basse, affermando che il rischio sicurezza correlato a questa scelta potrebbe essere mitigato da dettagliati dati preclinici sulla terapia.

Importanti sono anche i cosiddetti “real-world data”: i dati clinici reali, ossia ricavati dai pazienti nella quotidianità, al di fuori di una sperimentazione controllata. Questi dati comprendono parametri come la pressione sanguigna, i ritmi di sonno/veglia e i livelli di movimento fisico di una persona, così come le informazioni contenute nelle cartelle cliniche elettroniche (anche se questo strumento non è ancora uniformemente adottato in tutti i Paesi). Nell’ambito degli studi clinici, l’efficacia di un trattamento potrebbe essere misurata anche in relazione a un ‘gruppo placebo ideale’, modellato sui dati reali relativi all’andamento di una specifica patologia. Come spiegato nell’articolo, i real-world data stanno assumendo un ruolo sempre più importante nella sperimentazione dei farmaci e potrebbero essere potenzialmente in grado di trasformare la progettazione e i risultati della ricerca clinica. Basti pensare alle terapie geniche per l’atrofia muscolare spinale e per la leucodistrofia metacromatica, entrambe approvate e in uso anche nel nostro Paese. Durante le sperimentazioni, questi due farmaci sono stati testati sia in bambini in cui la malattia era ben conclamata, sia in quelli che avevano ricevuto la diagnosi ma che ancora presentavano pochi sintomi o addirittura nessuno: una scelta, quest’ultima, che può apparire discutibile ma che ha consentito di dimostrare la reale efficacia di tali terapie se somministrate prima che la malattia progredisca troppo e determini danni irrecuperabili. 

In molti casi, la sperimentazione clinica tradizionale può essere poco idonea alle malattie rare e, per questo motivo, alcuni ricercatori optano per gli studi adattivi. Ma cosa vuol dire adattivo? Si osserva la progressione dello studio e si ‘aggiusta il tiro’ man mano che si procede, ad esempio cambiando modalità di randomizzazione, aggiungendo pazienti o modificando la dose di farmaco. Come evidenziato nell’articolo, sperimentazioni di questo tipo richiedono una maggiore analisi statistica per essere validate ma, in futuro, potrebbero diventare la prassi per la valutazione di nuove terapie per le malattie rare.

NUOVE TECNOLOGIE AL SERVIZIO DELLE SPERIMENTAZIONI

Un approccio sempre più diffuso è quello delle sperimentazioni decentralizzate, che vengono gestite quanto più possibile da casa per rispondere alla difficoltà dei pazienti di raggiungere il centro clinico in cui si svolge il trial, difficoltà che porta spesso a controlli saltati o al totale abbandono dello studio. Consulenze virtuali e tecnologia “indossabile” (“wearable” in inglese) potrebbero permettere di raccogliere i dati clinici dei pazienti direttamente a domicilio, riducendo la necessità di visite di persona.

La pandemia di COVID-19 ha dato una forte spinta alle tecnologie dedicate a una gestione ‘da remoto’ della medicina e le sperimentazioni decentralizzate sono diventate inevitabilmente popolari, ma il perfezionamento di questo approccio richiede ancora del tempo: non è atipico, ad esempio, che oggi un paziente debba presentarsi fisicamente alle visite anche solo per firmare un modulo per il consenso al trattamento dei dati personali o per altre formalità che potrebbero essere affrontate in altro modo. Ovviamente, nell’ottica di una reale implementazione degli studi clinici decentralizzati vanno tenuti in considerazione alcuni aspetti, come i limiti dettati dalla digitalizzazione o dalla conformità a requisiti etici e legali.

Medicina da remoto e dispositivi wearable, inoltre, potrebbero diventare molto importanti anche nella raccolta dei dati clinici real-word, che, come già sottolineato nell’articolo, stanno assumendo un valore sempre più importante anche nell’ambito delle sperimentazioni di farmaci.

STUDI CLINICI: SERVE UN ACCESSO PIU’ EQUO 

L’ultimo tema trattato nell’articolo di Nature News è quello di un equo accesso agli studi clinici. Alcune malattie rare sono più diffuse in Paesi in cui le sperimentazioni, paradossalmente, non vengono svolte: questo è assurdo, perché è fondamentale che vengano coinvolte le popolazioni che richiederanno, poi, il maggior numero di interventi terapeutici. Un esempio su tutti è quello dell’anemia falciforme, patologia per la quale si stanno svolgendo studi clinici su approcci basati sulle terapie avanzate - ad esempio, è in valutazione da parte dell’Agenzia Europea per i Medicinali il primo farmaco basato sulla tecnologia CRISPR - studi clinici che però non coinvolgono le aree geografiche in cui il numero di pazienti è maggiore, Africa in primis.

Uno dei principali fattori che limita l’accesso alle sperimentazioni è quello economico: lo sviluppo di nuovi farmaci, in particolar modo delle terapie avanzate, richiede competenze, centri clinici specializzati e tecnologie che non sono ugualmente disponibili in tutti i Paesi e che, inevitabilmente, scarseggiano nelle nazioni in via di sviluppo. Negli ultimi anni, con il numero crescente di terapie avanzate in via di sviluppo, sono aumentate anche le occasioni di discussione in merito alla gestione di queste problematiche: appare evidente la necessità di adottare iniziative a livello globale per riuscire a garantire a un sempre maggior numero di pazienti con malattie rare di avere accesso sia alle sperimentazioni cliniche che, successivamente, alle nuove terapie eventualmente approvate.

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