Questo l'obiettivo di un progetto padovano coordinato dal prof. Alberto Burlina, direttore del Centro Regionale Malattie Metaboliche Ereditarie della Regione Veneto

Da un paio di gocce di sangue la possibilità di sapere se un bambino sia affetto o meno da una patologia rara. Lo screening neonatale non invasivo offre un’opportunità vitale a moltissime famiglie, consentendo di individuare in maniera precoce gli individui a rischio di sviluppare malattie ereditarie rare per le quali, in molti casi, sono disponibili terapie capaci di intervenire migliorando la qualità di vita dei pazienti stessi. L’importanza dei protocolli di screening neonatale è tale che un decreto ministeriale del 2016 ha esteso le procedure di screening a tutto il territorio nazionale, mettendo a disposizione delle regioni una consistente quota di investimenti al fine di rendere effettivo il programma. Successivamente, con l’introduzione dei nuovi LEA, lo screening neonatale è divenuto obbligatorio in ogni regione per 40 patologie rare.

Purtroppo, di questo gruppo di malattie non fanno ancora parte le malattie da accumulo lisosomiale (LSD), dovute a deficit di enzimi specifici che comportano un accumulo, all’interno dei lisosomi, di sostanze capaci di danneggiare organi e tessuti. L’attuale esclusione delle malattie da accumulo lisosomiale dai programmi di screening obbligatorio garantiti dai LEA è sostanzialmente dovuta al fatto che l'evoluzione di metodologie che consentono di eseguire una diagnosi di questi difetti in una goccia di sangue è piuttosto recente. Inoltre, per alcune di queste malattie, le manifestazioni cliniche non sono presenti nei primi mesi di vita e, pertanto, la mancanza di una urgenza terapeutica, associata all’elevato costo dei protocolli di trattamento, fa sì che non vi sia unanimità scientifica nell’includerle nei pannelli di screening. A tal riguardo però, va segnalato che recentemente, negli Stati Uniti, gli screening per due forme di LSD (la malattia di Pompe e la mucopolisaccaridosi tipo I) sono stati introdotti come obbligatori alla nascita.

A segnare un punto importante a supporto dell’applicazione di tali protocolli di screening alle malattie da accumulo lisosomiale sono i risultati di un recente lavoro, pubblicato sulle pagine della rivista Journal of Inherited Metabolic Diseases, condotto da un gruppo di studio padovano coordinato dal prof. Alberto Burlina, direttore del Centro Regionale Malattie Metaboliche Ereditarie della Regione Veneto e del Programma Regionale Screening Neonatale Allargato per le Malattie Metaboliche Ereditarie. “L’idea di allargare il concetto di screening neonatale anche ad altre malattie che non fossero solo quelle del pannello previsto dalla legge italiana nasce dalla precedente esperienza fatta negli Stati Uniti – spiega Burlina – dove è stato appurato che alcune di queste malattie lisosomiali hanno, per incidenza o per possibilità terapeutiche, un impatto pari a quello di altre malattie presenti nel concetto di screening neonatale”. In questo progetto, tra i primi in Europa, sono stati sottoposti a screening 44.411 bambini nati tra il 2015 e il 2017 nel Nord-Est d’Italia, sfruttando una piattaforma d’analisi per la ricerca di quattro importanti LSD: la malattia di Fabry, quella di Gaucher, quella di Pompe e la mucopolisaccaridosi di tipo I (MPS I).

Il programma che ci siamo posti è stato di sviluppare un metodo, sempre basato sull’analisi della singola goccia di sangue, che permettesse di identificare il maggior numero di pazienti minimizzando i cosiddetti falsi positivi ed evitando di suscitare allarmismo nella popolazione oggetto di screening”, prosegue Burlina. “Infatti, per la famiglia di un neonato appena dimesso dall’ospedale, ricevere una telefonata che confermi la presenza di una malattia grave come quelle da accumulo lisosomiale, provoca un forte disturbo sul piano psicologico”. Pertanto, il fulcro dell’intero processo di lavoro è stato quello di cercare di definire un valore che fosse in grado di identificare con precisione i soggetti e che, al contempo, non fosse così elevato da determinare un eccessivo numero di richiami. A tal proposito, oltre alla ricerca dei quattro enzimi principali per le quattro malattie (alfa-galattosidasi A per la malattia di Fabry, alfa-glicosidasi per quella di Pompe, beta-glucocerebrosidasi per la malattia di Gaucher e alfa-L-iduronidasi per la MPS I), all’interno dei laboratori dell’Ospedale di Padova sono stati sviluppati e messi a punto ulteriori test in grado di convalidare la positività del campione.

“Per rendere la cosa semplice – precisa il professore padovano – se inizialmente dosavamo solo l’enzima per verificare la carenza o meno dello stesso, a questo abbiamo aggiunto, sul medesimo campione di sangue, una ricerca per eventuali metaboliti che si accumulino in seguito alla carenza dell’enzima stesso”. In questo caso, i ricercatori non hanno fatto altro che lavorare sulla goccia di sangue già inviata per legge, dosando i metaboliti solo nel caso in cui il test di screening fosse risultato positivo. Si tratta di una metodologia di conferma tanto semplice quanto efficace e che non richiede ulteriori campioni e il conseguente stress per neonato e famiglia.

I risultati del lavoro parlano chiaro: per 40 neonati risultati positivi allo screening è stato eseguito il test di conferma, da cui è emersa, per 10 di loro, la diagnosi di malattia lisosomiale: 2 sono risultati affetti da malattia di Pompe, 2 da malattia di Gaucher, 5 da malattia di Fabry e 1 da MPS I. In tutto questo non si può trascurare l’evidente vantaggio nel rapporto costo-beneficio. “Per tutte le malattie lisosomiali comprese in questo pannello aggiuntivo c’è una terapia - conclude Burlina – e l’efficacia della terapia è riconosciuta come maggiore se la diagnosi è precoce. Ad esempio, la letteratura mondiale sui tempi di intervento terapeutico conferma che l’efficacia della terapia per la malattia di Pompe è necessariamente più elevata se la diagnosi viene posta nei primi quindici giorni di vita mentre si riduce notevolmente se solo la malattia viene riscontrata al terzo o quarto mese”.

Lo studio condotto dai ricercatori padovani, fortemente voluto dalla Regione Veneto e successivamente anche dalla Regione Friuli Venezia-Giulia e dalla Provincia Autonoma di Trento, attesta l’eccellenza della Sanità Veneta nel campo della prevenzione delle patologie rare e testimonia in maniera convincente la fondatezza e l’importanza dei protocolli di screening neonatale. Ad ulteriore conferma di questo concetto, c’è da segnalare il risultato ottenuto da un progetto grazie al quale sono stati sottoposti a test di screening neonatale per la malattia di Fabry 61.000 neonati delle regioni di Toscana e Umbria, che ha messo in evidenza un numero di casi della malattia più alto del previsto. I piccoli che hanno ricevuto la diagnosi avranno la possibilità di accedere in maniera precoce ai protocolli terapeutici con significativi vantaggi sul piano della qualità di vita.

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