Matteo Rossi Sebastiano, Giuseppe Ermondi e Giulia Caron

Uno studio dell’Università di Torino ha impiegato modelli computazionali per far luce sull’alterazione genetica di una piccola paziente, suggerendo un nuovo approccio terapeutico

Una delle più note limitazioni alla ricerca nel settore delle malattie rare e, in particolare, di quelle ultra-rare, è la mancanza di un campione di pazienti statisticamente sufficiente ad avviare gli studi clinici randomizzati nei quali si testano nuove molecole; pertanto, patologie quasi sconosciute, che affliggono alcune decine di persone nel mondo, risultano difficili da indagare a un certo livello di profondità. Se poi, come nel caso della paralisi spastica ascendente ereditaria ad esordio infantile (IAHSP), i pochi casi noti presentano anche un profilo mutazionale molto eterogeneo le cose si complicano ulteriormente, rendendo necessaria l’adozione di approcci innovativi con cui realizzare accurate simulazioni dei meccanismi biologici legati alla malattia: i ricercatori dell’Università di Torino hanno scelto di percorrere questa strada per identificare possibili molecole da utilizzare nel trattamento della IAHSP.

LA MALATTIA

La IAHSP è una forma di paralisi spastica che si manifesta già dalla tenera età con un aumento della rigidità muscolare a livello degli arti inferiori. Si tratta di una malattia neurodegenerativa caratterizzata da una progressiva incapacità di controllo delle gambe che rende difficile ai pazienti camminare; i sintomi si estendono via via agli arti superiori e alla muscolatura involontaria che regola il respiro, la deglutizione e il battito cardiaco, portando a una marcata riduzione della qualità di vita e, infine, alla morte del paziente, generalmente intorno alla terza decade di vita. Nella letteratura scientifica sono stati descritti circa 50 casi di IAHSP e il totale stimato dei pazienti nel mondo si aggira intorno a 150: numeri che confermano la difficoltà non solo di conoscere (e riconoscere) la malattia ma anche di indagarne l’eziologia.

La IAHSP è scatenata da mutazioni nel gene ALS2, il quale codifica per una proteina nota come alsina, la cui funzione non è ancora del tutto chiara”, afferma il dott. Matteo Rossi Sebastiano, assegnista del gruppo di ricerca CASSMedChem, sotto la supervisione dei professori Giulia Caron e Giuseppe Ermondi, docenti presso il Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università degli Studi di Torino. “Nella maggior parte dei casi è sufficiente una sola particolare mutazione a innescare la malattia e spesso il sito di mutazione è specifico per ogni paziente. Dal punto di vista di chi vuole trovare una terapia ciò si traduce nel fatto che, frequentemente, ogni paziente è diverso dall’altro”.

LE MUTAZIONI NON SONO TUTTE UGUALI

Il gene ALS2 risulta associato anche a un’altra patologia neurodegenerativa per la quale non esiste una terapia specifica, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), e in questo caso le relative mutazioni sono correlate a una maggior suscettibilità, da parte dello steso gene, allo stress ossidativo; tuttavia, nella IAHSP esse hanno conseguenze differenti. “Alcune di queste mutazioni determinano la sintesi di soltanto un frammento inerte di alsina, oppure corrompono l’mRNA che funge da ‘stampo’, facendo in modo che la proteina manchi completamente dall’organismo”, precisa Rossi Sebastiano. “Altre, invece, provocano il cambiamento di un aminoacido nella sequenza che compone la proteina. In questo secondo caso, l’alsina è presente ma la sua struttura è modificata. Pertanto, la sua funzionalità potrebbe essere compromessa”. Questo secondo tipo di mutazioni - dette missenso - è stato preso in considerazione nel lavoro svolto dagli studiosi piemontesi.

LA MUTAZIONE DELLA PICCOLA OLIVIA

Nel corso del 2022, i ricercatori dell’Università di Torino hanno pubblicato due articoli, uno sulla rivista Drug Discovery Today e un altro su Molecules, nei quali hanno rivolto la loro attenzione all’analisi delle mutazioni missenso legate alla IAHSP. “Nel primo articolo abbiamo descritto la metodica con cui approcciare tali mutazioni”, racconta ancora Rossi Sebastiano. “Mentre nel secondo ci siamo soffermati su una specifica mutazione (R1611W) che determina la sostituzione dell’amminoacido arginina con il triptofano in posizione 1611”. Si tratta della mutazione riscontrata in Olivia, una bambina di 5 anni affetta da IAHSP che il gruppo di ricerca CASSMedChem ha conosciuto grazie all’associazione HelpOlly. “Dopo aver cercato tutti gli specialisti della patologia a livello mondiale siamo venuti in contatto con l’equipe del prof. Shinji Hadano, dell’Università di Tokai, in Giappone, che da oltre vent’anni studia il ruolo e la funzionalità dell’alsina”, aggiunge Rossi Sebastiano. “Abbiamo così scoperto che non era stata ancora definita una struttura tridimensionale della proteina e non c’erano informazioni nemmeno nei principali database scientifici, a testimonianza di quanto poco fosse stata studiata”.

Generalmente, la struttura tridimensionale di una proteina si ottiene con tecniche di cristallografia a raggi X - di cui ha raccontato anche il Premio Nobel Venkatrama “Venki” Ramakrishnan nel suo libro sullo studio del ribosoma - ma nel caso dell’alsina i ricercatori piemontesi hanno dovuto mettere a punto un modello per omologia, cioè usando tecniche computazionali predittive della struttura stessa della proteina. “Questo grazie ad AlphaFoldDB, uno strumento rivoluzionario, disponibile liberamente, che sfrutta l’intelligenza artificiale per predire la struttura delle proteine”, precisa Rossi Sebastiano. “Successivamente, abbiamo incrociato le informazioni restituite da AlphaFoldDB con i dati di letteratura, dai quali risultava che, per funzionare correttamente, l’alsina doveva essere formata dall’unione di quattro elementi [monomeri, N.d.R.]. Avevamo bisogno di capire come questi elementi si ‘incastrassero’ a livello molecolare, perciò abbiamo realizzato un modello di alsina riportante la specifica mutazione di Olivia”.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E MODELLI COMPLESSI

Che la mutazione di Olivia impedisse ai quattro monomeri che compongono l’alsina di agganciarsi e formare un unico elemento [tetramero, N.d.R.] era risaputo, ma i ricercatori sono stati in grado di generare dei modelli per far vedere come ciò avvenisse. “Questa mutazione cambia la struttura tridimensionale della proteina generando altri elementi [dimeri, N.d.R.] che ostacolano la formazione della proteina originale e funzionante”, aggiunge il ricercatore. “Perciò abbiamo voluto scoprire se esisteva un gruppo di molecole che, legandosi al sito della mutazione, lo ‘nascondesse’, facendo in modo che la proteina si potesse normalmente aggregare in tetrameri”.

Sempre grazie all’intelligenza artificiale, i ricercatori di Torino hanno potuto confrontare migliaia di molecole già approvate per altri usi terapeutici e, alla fine, hanno identificato una compatibilità con il menatetrenone (MK4), una delle forme in cui si presenta la vitamina K. Negli Stati Uniti e in Europa MK4 trova spazio nella preparazione degli integratori ma in Giappone questa molecola è già stata approvata per il trattamento dell’osteoporosi nelle donne in menopausa.

DA OLIVIA A MOLTI ALTRI PAZIENTI

“Fino a questo punto, la nostra ricerca era stata condotta esclusivamente in digitale ma, per portare i risultati di questa scoperta alla paziente, in totale sicurezza, avevamo bisogno di eseguire verifiche sperimentali”, commenta Rossi Sebastiano. “Perciò siamo ricorsi ai modelli cellulari e abbiamo aggiunto delle prove di tossicità condotte su fibroblasti, per essere certi che il farmaco fosse sicuro”. I dati raccolti sono stati presentati alla Commissione Medico-Scientifica incaricata della cura di Olivia che, dopo aver valutato con attenzione ogni aspetto, ha autorizzato la somministrazione della vitamina K alla bambina come cura compassionevole.

“Ovviamente il trattamento ideale per questo tipo di malattie sarebbe rappresentato da un approccio di ‘correzione’ della mutazione attraverso la terapia genica ma, nel caso delle malattie neurologiche, questa strategia mostra ancora alcuni limiti”, conclude Rossi Sebastiano. “Il nostro approccio è nato dall’esigenza di trovare un meccanismo in grado di ristabilire il buon funzionamento dell’asse neuronale, rallentando il progredire dei sintomi della IAHSP e migliorando le condizioni della paziente. È un metodo rapido, economicamente sostenibile e potenzialmente ricco di benefici. Va sottolineato che l’analisi computazionale non potrà mai sostituire il dato sperimentale, ma può rivelarsi utile per integrarlo, riducendo i tempi del percorso di studio di nuove terapie”.

Infatti, sebbene quello sviluppato all’Università di Torino sia un percorso altamente personalizzato, i ricercatori sono già entrati in contatto con altri pazienti e stanno allargando il loro approccio ad altre mutazioni collegate alla IAHSP e di trovare risposte terapeutiche là dove la grande industria farmaceutica fatica ancora ad arrivare.

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