Prof. Giuseppe Palumbo (Catania): “per valutare la prognosi dei pazienti si considera età, livello di emoglobina, eventuale leucocitosi, quantità di blasti nel sangue e presenza di sintomi sistemici”

I fan del personaggio di Lincoln Rhyme – nato dalla penna di Jeffrey Deaver – sanno quale valore abbia la catalogazione degli indizi per giungere alla soluzione di un caso. In medicina, un processo analogo è dato dalla stratificazione dei pazienti sulla base della prognosi e, per il trattamento della mielofibrosi, questa linea d’azione è essenziale. “La mielofibrosi è una malattia oncologica del sangue che rientra nel gruppo delle malattie mieloproliferative croniche Ph-, così denominante per distinguerle dalla leucemia mieloide cronica, caratterizzata dalla presenza del cromosoma Philadelphia”, spiega il prof. Giuseppe Palumbo, specialista in Ematologia presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Policlinico Vittorio Emanuele” di Catania.

“All’interno di questo gruppo - prosegue Palumbo - le tre principali patologie sono la trombocitemia essenziale, in cui si osserva un innalzamento esponenziale delle piastrine nel sangue periferico, la policitemia vera, in cui a crescere è soprattutto il numero dei globuli rossi (talvolta anche delle piastrine e/o dei globuli bianchi) e, infine, la mielofibrosi, che è considerata la malattia più aggressiva. Spesso si accompagna ad un aumento delle dimensioni della milza, oltre ad essere caratterizzata dalla presenza nel midollo osseo di una fibrosi di grado variabile che ostacola la produzione delle normali cellule del sangue”.

La mielofibrosi può presentarsi in forma primaria, quando non è conseguente ad altre malattie, oppure in forma secondaria, quale evoluzione di un’altra patologia mieloproliferativa cronica, come la trombocitemia essenziale o la policitemia vera. “Nel 15-20% dei malati di policitemia vera, dopo un tempo mediano di 11 anni si sviluppa mielofibrosi”, conferma il prof. Francesco Passamonti, direttore dell’Unita Operativa Complessa di Ematologia dell'Ospedale di Circolo, Università dell’Insubria di Varese. In tal caso, la biopsia midollare mette in evidenza una fibrosi di grado 2 a livello del midollo, si comincia a parlare di mielofibrosi post policitemia vera e la prognosi diventa più severa. Tuttavia, grazie a modelli di gestione come MYSEC-PM (MYelofibrosis SECondary Prognostic Model), è possibile stratificare in categorie di rischio i pazienti sulla base della prognosi e della sopravvivenza. Ognuna di tali categorie presenta perciò un’attesa di vita differente, rendendo necessario operare scelte terapeutiche ad ampio raggio.

Per quanto riguarda, invece, la mielofibrosi primaria, la prognosi viene classicamente definita in base alla scala IPSS (International Prognostic Scoring System), che prende in considerazione la presenza o l’assenza di 5 fattori specifici. “I parametri esaminati comprendono l’età superiore ai 60 anni, un livello di emoglobina inferiore a 10 gr/dL, la leucocitosi [N.d.R. globuli bianchi superiori a 25.000/mcl], la presenza di blasti nel sangue circolante uguali o maggiori all’1% e il riscontro di sintomi sistemici come la febbre non conseguente a infezioni, la sudorazione notturna e la perdita di peso”, continua Palumbo. Sulla base del punteggio combinatorio, i pazienti vengono suddivisi in gruppi che vanno dalla categoria a 'basso rischio' fino a quella ad 'alto rischio'; in mezzo ci sono due categorie a 'rischio intermedio'. “I pazienti IPSS Intermedio-1 (o IPSS Int-1) costituiscono il più lieve dei due gradini a rischio intermedio, ma tra questi, vi sono individui che risentono di una splenomegalia importante, a partire da 5 cm della milza debordanti dall’arcata costale. A questi soggetti vengono, di norma, proposti  trattamenti più impegnativi”, chiarisce l'esperto.

In maniera simile a quanto osservato per la policitemia vera, anche la mielofibrosi trae origine dalle mutazioni che colpiscono il gene JAK2, portando a un aumento di attività nella via di segnalazione JAK-STAT. “Oltre alla mutazione in JAK2, sono state recentemente scoperte altre due mutazioni driver, responsabili della malattia, a danno dei geni MPL e CALR”, prosegue Palumbo. “La mutazione di JAK2 è presente in circa il 55% dei pazienti, quella che affligge il gene MPL riguarda solo il 5% dei pazienti, mentre la mutazione del gene per la calreticulina (CALR) si riscontra in circa il 25-30% dei soggetti. Esiste, poi, un gruppo di pazienti in cui nessuna delle suddette 3 mutazioni è presente, che vengono definiti tripli negativi e che hanno una peggiore prognosi. Recentemente, sono state descritte mutazioni su altri geni, in particolare su ASXL1, EZH2, SRSF2, IDH1 e IDH2. La presenza di una di queste mutazioni conferisce al paziente un alto rischio molecolare. Sul piano della prognosi, i pazienti IPSS Int-1 con una o più di queste mutazioni si comportano come i pazienti IPSS Int-2 e vanno incontro a un peggiore andamento della malattia, potendo anch’essi beneficiare di un trattamento specifico”.

Il percorso terapeutico per la mielofibrosi, pertanto, si presenta molto vario e comprende sia terapie sintomatiche, mirate a controbattere il problema dell’anemia, sia terapie specifiche, che tentano di contenere la proliferazione midollare. Inoltre, l’identificazione delle mutazioni legate allo sviluppo della mielofibrosi ha permesso di mettere a punto farmaci specifici in grado di bloccare i meccanismi che innescano la malattia. Uno di questi è ruxolitinib (Jakavi®), sviluppato da Novartis e approvato sia dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense che dall'Agenzia Europea per i  Medicinali (EMA) per il trattamento della mielofibrosi. Il farmaco prodotto dalla casa svizzera è stato testato in due studi clinici, COMFORT I e COMFORT II, nei quali sono stati complessivamente arruolati più di 500 pazienti e da cui è emerso il valore della molecola nella riduzione della splenomegalia, nel controllo dei sintomi e nell’aumento della sopravvivenza.

Ruxolitinib ha un’indicazione di trattamento per i pazienti IPSS Int-2 e anche per gli IPSS Int-1, a patto che abbiano almeno 5 cm di milza debordante dall’arcata costale”, fa presente Palumbo. “Si tratta di una terapia mirata che funziona anche con pazienti che abbiano la mutazione MPL e CALR, ed è efficace, oltre che nel ridurre la splenomegalia, anche nel contrastare i sintomi: in seguito al trattamento scompaiono la sudorazione notturna e il prurito, e i pazienti recuperano peso”. Al momento, ruxolitinib è l’unica terapia di questo genere approvata in Italia per i pazienti IPSS Int-2 e ad alto rischio. “A breve l’AIFA dovrebbe estendere l'indicazione di ruxolitinib anche ai pazienti IPSS Int-1, come hanno già fatto l’EMA in Europa e la FDA negli USA”, conclude Palumbo. “In molti ospedali, ruxolitinib veniva già impiegato per uso compassionevole prima di essere registrato. Adesso viene utilizzato negli stadi più avanzati e si è molto vicini ad assicurare la rimborsabilità del farmaco agli Int-1 in tutto il territorio nazionale, anche se all’inizio non si potrà escludere una certa differenza tra varie le regioni”.

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