Non basta essere affetti da Sclerosi laterale amiotrofica (sla), non basta che le condizioni si aggravino: se il paziente riesce ancora a deglutire e a respirare autonomamente, in Sardegna non ha diritto ad accedere al progetto 'Ritornare a casa', che prevede un contributo economico per le famiglie che si prendono cura di un proprio caro con la Sla. E’ l’assurda vicenda di cui sono vittima Pierina, 58 anni, e suo marito, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, e che Redattore Sociale riporta in un articolo del 24 gennaio 2016.
Pierina deve quotidianamente accudire il marito in tutto e con solo 500 euro di accompagno come sostegno. Che però se ne vanno tutti per pagare le rate della stufa a pellet che ha dovuto comprare perché lui, stando sempre fermo, soffre molto il freddo. Ad aiutarla, viene una signora, tre volte a settimana, dalle 8 alle 11, grazie alla legge 162. Ma la Regione le dà solo 120 euro al mese.
I primi sintomi della Sla del marito si sono manifestati ad agosto 2012, “poi a novembre – racconta Pierina - è iniziato il formicolio alle gambe: il mio neurologo ha subito capito di che si trattava, ci ha inviato al centro sclerosi di Cagliari e lì è stata riconosciuta la Sla. Mio marito è stato quindi mandato al Centro Sla del policlinico di Cagliari e lì, a marzo 2013, è arrivata la diagnosi”. Un colpo duro per la famiglia, che però ha potuto contare sulla “grande umanità dei medici della Asl”, chiarisce Pietrina. “Abbiamo avuto subito tutto quello che ci serviva: l'accompagno, il montascale, la carrozzina manuale, poi la carrozzina elettrica. La malattia intanto faceva rapidamente il suo corso: oggi mio marito è paralizzato dal bacino in giù, ma anche le braccia e le mani iniziano a bloccarsi e il bacino comincia a cedere: devo fare tutto io per lui, da sbucciare la frutta a lavarlo”.
Quando Pierina e suo marito hanno chiesto di accedere al fondo previsto da 'Ritornare a casa', però, hanno ricevuto un “no” come risposta. “Perché è solo per i malati che non respirano e non deglutiscono: mio marito ha la colpa di riuscire ancora a farlo. Insomma, ci hanno detto che senza peg e senza tracheo non abbiamo diritto a questo contributo. Ma – si chiede Pietrina – perché non viene riconosciuto il nostro bisogno? Perché ci viene negato questo aiuto? Sappiamo di altre famiglie che, lottando anche insieme ad associazioni come Arisla, sono riuscite ad ottenere ciò che chiedevano. Però io mi domando: se è un nostro diritto, perché dobbiamo ridurci a chiedere l'elemosina?”.
Insomma, i soldi in una famiglia come questa, non bastano davvero. “Mia figlia si è sposata prima ancora di trovare un lavoro, perché voleva essere accompagnata all'altare dal padre: ma la malattia è stata più veloce, gli ha tolto presto l'uso delle gambe. E all'altare l'ha accompagnata il fratello. Oggi è sposata, ma né lei né il marito hanno un lavoro”. L'altro figlio ha lavorato per tre anni, ma poi “anziché rinnovargli il contratto lo hanno rimandato a casa”. E lei stessa, Pietrina confessa: “Avevo un negozio di fiori e lavoravo bene, ma ora non posso più farlo, perché devo assistere mio marito. Ma anche perché ho anche io una brutta malattia, la diastematomielia, che mi impedisce di andare tanto in giro”.
Il Comune, in verità, ha offerto alla famiglia “un servizio a domicilio per lavare i malati, ma io l'ho rifiutato: almeno alla sua intimità, fin quando ce la faccio, voglio provvedere io. “Quello di cui però avrei bisogno – conclude - è una persona che mi aiuti ogni giorno a portare avanti la casa e svolgere le commissioni: io voglio pensare a mio marito e riesco a farlo, ma non posso fare anche tutto il resto”.
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