E’ l’uso di oligonucleotidi antisenso infusi a livello spinale: ma si è ancora all’inizio

L’uso di oligonucleotidi antisenso, molecole costituite da sequenze di DNA progettate per modificare l’RNA, sembra rappresentare una grande promessa per il trattamento di malattie umane, in particolare di quelle neurodegenerative come la SLA.
Sull’uso di questa tecnica come trattamento terapeutico per la Sla sono giunte recenti conferme, dimostrate da uno studio di fase uno che ha valutato l’utilizzo dell’oligonucleotide antisenso ISIS 333611 disegnato contro la proteina mutata SOD1 in 21 pazienti. Lo studio, pubblicato su Lancet Neurology suggerisce che questa tecnica sia in grado di diminuire la presenza della proteina che causa la malattia, nella sua variante familiare.

La SLA è, infatti, una patologia che è nel 10% dei casi familiare e, tra questi, il 20% dipende da difetti nel gene che codifica per la superossido dismutasi 1 (SOD1), un enzima fondamentale per la cellula che interviene nei meccanismi di difesa contro gli agenti ossidanti. La proteina SOD1 difettosa forma aggregati proteici tossici per il motoneurone e fa diminuire la sua presenza nel nucleo della cellula nervosa. Questo causa una maggiore sensibilità del DNA ai danni provocati dagli agenti ossidanti.

Gli esperti, guidati da Timothy Miller della Washington University, hanno trattato 21 pazienti con SLA famigliare e mutazioni in SOD1 con infusioni spinali dell’oligonucleotide antisenso o placebo.

Alcuni partecipanti hanno riportato eventi avversi tipici delle infusioni spinali quali emicrania e lombalgia, senza alcuna differenza tra l’oligonucleotide antisenso e il placebo. I pazienti che avevano ricevuto infusioni successive hanno riportato meno eventi avversi.

Campioni di fluido cerebrospinale prelevati immediatamente dopo l’infusione hanno rivelato la presenza dell’oligonucleotide in tutti i pazienti che avevano ricevuto la terapia. I campioni di midollo spinale di un paziente che è deceduto successivamente per SLA hanno rilevato livelli elevati dell’oligonucleotide in corrispondenza del sito di infusione, suggerendo che le stime precedenti del tempo in cui il farmaco persiste nel midollo erano accurate.

Il prossimo passo, spiegano gli autori, sarà quello di condurre di uno studio più ampio per valutare la sicurezza a lungo termine e l’efficacia dell’oligonucleotide.

 

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