Sindrome ipereosinofila

Ematologo, reumatologo, pneumologo, immunologo e allergologo sono coinvolti nella gestione dei pazienti. E non mancano le difficoltà nel processo diagnostico di malattia 

Dai libri di biologia si apprende che il ruolo degli eosinofili è quello di distruggere i parassiti e modulare le risposte infiammatorie (specialmente in presenza di allergie); perciò, mentre i linfociti B producono gli anticorpi e i linfociti T uccidono le cellule infettate dai virus, questo tipo di globuli bianchi sembra svolgere mansioni secondarie. Niente di più sbagliato dal momento che gli eosinofili non solo possiedono un preciso valore nella risposta immunitaria ma, qualora siano presenti in numero troppo elevato, possono dar luogo a una condizione conosciuta come sindrome ipereosinofila (HES), la cui presa in carico risulta assai complessa e rimandata a specialisti di diverse branche della medicina.

La sindrome ipereosinofila è una patologia rara, caratterizzata da un conteggio superiore a 1500 eosinofili per millimetro cubo di sangue periferico (>1500/mmc) in almeno due valutazioni consecutive a distanza di sei mesi una dall’altra”, afferma Cristina Papayannidis, dirigente medico presso l’U.O. di Ematologia “Seràgnoli” dellIRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Bologna. “Insieme a questo i criteri diagnostici della malattia comprendono il danno d’organo legato all’accumulo di eosinofili in varie sedi dell’organismo e l’esclusione di altre cause secondarie”. Tali criteri sono derivati da una iniziale descrizione di questa sindrome, pubblicata nel 1975 sulla rivista Medicine da un gruppo di esperti del National Institute of Allergy and Infectious Diseases presso l’NIH di Bethesda, e sono stati rivisti da un team internazionale di esperti che, nel 2012, ha pubblicato un aggiornamento sulla rivista The Journal of Allergy and Clinical Immunology.

Prima di addentrarsi a fondo in questa malattia è opportuno fare un rapido ripasso delle cellule che le hanno conferito l’appellativo: gli eosinofili, infatti, sono globuli bianchi della classe dei granulociti (a cui appartengono anche i neutrofili fagocitanti i batteri che invadono l’organismo), contraddistinti da un nucleo piuttosto grande e dalla caratteristica forma “bilobata”. Questi speciali globuli bianchi tendono a non fagocitare i batteri - anche se potrebbero farlo - ma risultano coinvolti nella modulazione delle attività cellulari e chimiche in corso di infiammazione: sono cellule cariche di enzimi a cui spetta il compito di inattivare i mediatori dell’infiammazione. Nella maggior parte dei casi il rialzo degli eosinofili viene associato a sindromi allergiche ma, quando il loro numero sale troppo oltre un certo valore, le conseguenze per l’organismo possono farsi molto serie.

“Da un punto di vista clinico sono numerose le manifestazioni di danno d’organo legate a una elevata presenza di eosinofili nel sangue”, prosegue Papayannidis. “Si spazia dai sintomi a danno delle vie respiratorie, come asma, tosse e dispnea, fino alle manifestazioni cardiovascolari, con ipertensione e scompenso cardiaco”. Tuttavia, vi sono pazienti con eosinofilia anche grave, ad esempio, che non sviluppano mai danni cardiaci. “Esistono forme ad interessamento cutaneo, che provocano eczemi o orticarie con fastidiosi pruriti, e altre che colpiscono l’apparato gastrointestinale suscitando gastriti e coliti”, riprende l’esperta. “Infine, vi sono forme associate a problematiche di tipo reumatologico, come l’artrite reumatoide, o neurologico. Esistono persino forme psichiatriche di malattia, capaci di provocare una depressione non attribuibile a cause organiche ma specificamente connessa all’ipereosinofilia”. Per complicare ancora di più un quadro che risulta già piuttosto variegato va detto che in alcuni casi l’ipereosinofilia non si associa ad alcun sintomo specifico, rendendo ancora più difficile farsi un’idea di quanto sia diffuso il problema.

In Europa, come pure nel resto del mondo, non esistono registri in grado di restituire un quadro obiettivo della reale diffusione della malattia ma, secondo le più recenti stime, l’incidenza della sindrome ipereosinofila varia tra 0,3 e 6 casi su 100 mila abitanti, a seconda delle zone geografiche. “In Italia questo valore potrebbe oscillare tra 2 e 5 casi per 100 mila abitanti”, precisa Papayannidis. “Ma si tratta di un calcolo per approssimazione dal momento che alcuni pazienti non completano nemmeno il percorso di esami necessario per arrivare a una diagnosi confermata”. L’ampio ventaglio sintomatico - che chiama in causa esperti di riferimento dei settori dell’ematologia, reumatologia, pneumologia, immunologia e allergologia -  fa comprendere come il principale nodo legato a questa malattia sia proprio la diagnosi.

“Occorre escludere le cause non prettamente ematologiche di incremento nel numero degli eosinofili”, puntualizza l’esperta. “Tra queste le allergie, le patologie reumatologiche, autoimmuni o, ancora, le infezioni micotiche e parassitarie [gli eosinofili sono le uniche cellule in grado di attaccare e danneggiare le larve di certi parassiti elmintici, N.d.R.] da accertare con un test parassitologico sulle feci”. Una volta scartate tali possibili cause si può indagare l’origine midollare della malattia. “In questo caso si ricercano mutazioni precise, come quella che interessa il gene di fusione FIP1L1-PDGFRA che, se presente, identifica una entità definita dai criteri del WHO relativi ai tumori emolinfopoietici e caratterizzata da iperproduzione di eosinofili”, continua Papayannidis. “Qualora il riscontro di tale problema trovi conferma il paziente comincia il trattamento con terapie mirate contro queste alterazioni molecolari”. Viceversa, se l’iperoesinofilia non dovesse essere associata a queste mutazioni, né alle suddette condizioni citate in precedenza, si entra nel campo delle forme idiopatiche, cioè che non hanno causa apparente. E sono meno rare di quanto si pensi.

Il riscontro di una causa molecolare specificamente connessa al rialzo del numero degli eosinofili consente di intervenire con terapie mirate - su tutti imatinb, che funziona bene contro le manifestazioni di malattia - ma, in presenza di una sindrome ipereosinofila idiopatica il medico può solo agire contro i sintomi (se evidenti). “Il trattamento ha inizio con la somministrazione di farmaci corticosteroidi che, in tempi brevi, alleviano i sintomi e aiutano il paziente a stare meglio”, conclude Papayannidis. “Tuttavia, se assunti per lungo tempo i corticosteroidi possono essere causa dell’insorgenza di complicanze tra cui diabete e osteoporosi. Perciò, per tutti coloro che non possono più assumerli o sono risultati intolleranti è disponibile il trattamento con anticorpi monoclonali, ad esempio mepolizumab diretto contro l’interleuchina 5 (IL5), nota come fattore di differenziazione eosinofilico, che influenza le funzioni e la migrazione degli eosinofili”. L’azione di questa categoria di farmaci si esplica sui fattori che rendono possibile la proliferazione degli eosinofili e, con rapidità, consente un abbassamento del conteggio, producendo un miglioramento sulle condizioni cliniche dei malati.

Infine, nei casi più gravi di ipereosinofilia si ricorre a trattamenti a base di idrossiurea e interferone che abbassano notevolmente la quantità di globuli bianchi circolanti.

 

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