Prof.ssa Maria Luisa Brandi: “L’approccio multidisciplinare sperimentato con successo nei bambini deve poter essere trasferito anche nell’adulto, per evitare abbandoni terapeutici”
L’ipofosfatemia legata all’X (XLH) è una condizione permanente, una rara patologia genetica per la quale, ad oggi, non esiste una terapia risolutiva e che, di conseguenza, deve essere opportunamente trattata e gestita per tutta la vita. Tuttavia non è così: infatti, nonostante le numerose evidenze cliniche che mettono in luce i danni multi-organo e le morbilità associate alla carenza cronica di fosfato, il numero di pazienti trattati decresce all’aumentare dell’età. Purtroppo non si tratta di miracolose guarigioni, ma di abbandoni terapeutici.
Secondo uno studio italiano pubblicato su Osteoporosis International, la XLH è ancora percepita come una malattia pediatrica e la mancanza di consenso sull’opportunità della terapia nel paziente adulto favorisce la mancata adesione al trattamento. “Una malattia cronica multisistemica di questo tipo, invece, richiederebbe che l’approccio multidisciplinare sperimentato con successo nei bambini potesse essere trasferito alla cura del paziente adulto”, afferma la professoressa Maria Luisa Brandi, co-autrice dello studio, Docente Ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Università di Firenze, Direttore dell’Unità Operativa di Malattie del Metabolismo Minerale e Osseo, presidente dell’associazione FIRMO e presidente del Comitato Scientifico dell’associazione AIFOSF. Ovviamente non si tratta di fare ‘copia e incolla’, ma di adattare l’approccio multidisciplinare pediatrico al paziente adulto. “È necessario coinvolgere tutti gli specialisti del settore e integrare altre discipline, avendo in testa un unico obiettivo: migliorare la qualità della vita di queste persone”, afferma la professoressa Brandi.
Maria Luisa Brandi, a cui la European Society of Endocrinology ha recentemente assegnato la European Hormone Medal 2023, si occupa da quarant’anni di malattie rare nel campo del metabolismo osseo e minerale. “Una buona esperienza - dice ridendo - che però non mi esonera dallo studio. Solo il nostro investimento nella conoscenza e nelle competenze può fare davvero la differenza per questi pazienti. Per questo non ho mai smesso di approfondire”.
La malattia
L’ipofosfatemia legata all’X è una rara patologia dovuta a una mutazione del gene PHEX, responsabile della produzione del fattore di crescita FGF23, importante regolatore ormonale dell’omeostasi del fosfato. Insieme al suo co-recettore Klotho, FGF23 modula il riassorbimento del fosfato a livello renale ed esplica un doppio controllo sulla sintesi e sull’eliminazione della vitamina D attiva (calcitriolo). La carenza di fosfato e le basse concentrazioni di calcitriolo, che a differenza del rachitismo carenziale non possono essere efficacemente integrate con l’alimentazione, portano a un ritardo nella crescita, ad anomalie scheletriche di entità variabile, al rachitismo e all’osteomalacia (patologia che comporta una riduzione della densità ossea), oltre ad altri sintomi invalidanti come dolore osseo, entesopatia (sofferenza alle giunzioni osteotendinee), artrosi, ascessi dentali, difficoltà di udito e disfunzioni muscolari.
I sintomi in età adulta
“I primi segni della malattia solitamente iniziano a comparire durante il primo o il secondo anno di vita, ma questi pazienti dovranno convivere con l’XLH e con un’aumentata produzione dell’ormone FGF23 per tutta la loro esistenza”, afferma la professoressa Brandi. “Per questa ragione, mentre nel bambino i sintomi più evidenti sono il difetto di crescita e la malformazione di alcuni segmenti scheletrici, nell’adulto a queste manifestazioni si aggiungeranno altre problematiche dovute al trascorrere del tempo e all’accumulo delle alterazioni a carico di ossa e articolazioni, come l’artrosi, l’entesopatia, le fratture da insufficienza e altre complicazioni derivanti da sintomi infantili irrisolti e aggravati con il progredire della malattia”.
Inoltre, con gli anni questi pazienti tendono a sviluppare problemi dentali (parodontite, carie e ascessi dentali), anomalie cardiovascolari (ipertensione a esordio precoce e ipertrofia ventricolare sinistra), perdita dell’udito neurosensoriale, nefrocalcinosi (eccesso di calcio depositato nei reni) e iperparatiroidismo (condizione clinica correlata all'eccessiva sintesi e secrezione di paratormone, conseguenza anche della terapia a base di fosfato). A tutto questo si aggiungono un aumento del ‘peso’ psicologico della malattia e una riduzione della qualità della vita.
La presa in carico del paziente adulto
“Proprio per rispetto nei confronti dei pazienti è necessario che le problematiche degli adulti affetti da XLH siano gestite da medici professionisti dell’adulto”, dichiara la professoressa Brandi. “L’ipofosfatemia legata all’X porta a numerose complicanze che vanno ‘sospettate’ in un’ottica preventiva e tenute sotto controllo nella cronicità: tutti compiti che non possono essere svolti efficacemente da un pediatra. Basti pensare a una donna affetta da XLH che va incontro alla menopausa: un pediatra sarebbe in grado di seguirla in modo adeguato? Sicuramente no. Esattamente come io non sarei in grado di seguire in maniera ottimale un bambino. Pur conoscendo bene la patologia, infatti, non ho una visione a 360° di quell’età”.
“Purtroppo, per molto tempo, anche una volta raggiunta la maturità scheletrica e la maggiore età, i pazienti continuavano ad essere seguiti dal pediatra che aveva diagnosticato loro la malattia”, racconta Maria Luisa Brandi. Questo accadeva, e talvolta accade ancora, per diverse ragioni, che vanno dal rapporto di fiducia creato con il pediatra alla carenza di specialisti dell’età adulta che si occupano di XLH. “Da qui la necessità di una corretta transizione dall’assistenza pediatrica a quella per l’età adulta: non dev’essere un abbandono del paziente, ma una consegna responsabile”, precisa l’esperta. “I pazienti hanno il diritto assoluto di ricevere le migliori cure possibili”.
Parola d’ordine: continuare la terapia
La terapia tradizionale per la XLH è basata sull’assunzione di calcitriolo associato a sali di fosfato inorganico. Questa integrazione, però, corregge solo alcune delle alterazioni biochimiche causate dalla malattia, senza modificarne i meccanismi patogenetici (come gli elevati livelli di FGF23) e non è in grado di intervenire sui processi di mineralizzazione ossea. “Si tratta di una terapia molto pesante per l’apparato gastroenterico. Per questo motivo viene dilazionata in più dosi suddivise nell’arco della giornata e prevede un monitoraggio costante dei potenziali rischi correlati (nefrocalcinosi, ipercalciuria e iperparatiroidismo)”, spiega la professoressa Brandi.
Da qualche anno, alla terapia convenzionale si è affiancato l’uso del burosumab, un anticorpo monoclonale ricombinante progettato per dirigersi specificamente contro il fattore di crescita fibroblastico 23. Nei pazienti con XLH ha dimostrato una significativa capacità di ridurre la deformità degli arti inferiori e la gravità generale del rachitismo, oltre a indurre miglioramenti nella funzionalità fisica (ad esempio nella capacità di deambulazione). I risultati sono evidenti non solo nei bambini ma anche nei pazienti adulti, come dimostrano gli studi di Fase III pubblicati sulla rivista BMJ RMD Open, i cui risultati mettono in luce un miglioramento statisticamente significativo nella deambulazione, una marcata riduzione dell’affaticamento e dell’osteoartrite e una più rapida guarigione da fratture o pseudofratture. “Alla luce di tutto ciò appare evidente come sia consigliabile la prosecuzione della terapia anche durante l’età adulta. Tuttavia, la questione non è così semplice come potrebbe sembrare a un’occhiata superficiale”, afferma la dottoressa Brandi.
In Italia, infatti, il burosumab è disponibile dalla fine del 2018, prima tramite un programma di accesso anticipato al farmaco sulla base della legge n.326/2003, e successivamente in virtù dell’approvazione ufficiale da parte di AIFA. La rimborsabilità del medicinale, tuttavia, è tuttora limitata al trattamento dei bambini di età pari o superiore a un anno e di adolescenti con sistema scheletrico in crescita ed è prevista in fascia H: ciò significa che il farmaco può essere prescritto a carico del Servizio Sanitario Nazionale soltanto dai Centri di riferimento regionali per la XLH.
Nel 2020, dopo il parere favorevole dell’EMA, la Commissione Europea ha concesso l’autorizzazione all’utilizzo di burosumab anche negli adulti affetti da XLH: in Italia, per questa nuova indicazione, il farmaco è stato finora fornito ad uso compassionevole dall'azienda produttrice Kyowa Kirin. “Purtroppo, però, tra poco non sarà più così, e per ora non è giunta alcuna garanzia di rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale”, afferma amara la professoressa Brandi. “Per onestà intellettuale bisogna riconoscere che, ad oggi, non disponiamo ancora di tutte le informazioni sulle conseguenze a lungo termine del trattamento con burosumab. È un farmaco che si usa da troppo poco tempo e ogni professionista si è fatto un’idea soggettiva del suo rapporto costi/benefici, basandosi in gran parte sulla propria piccola esperienza personale. Per quanto mi riguarda, credo in questa terapia e mi auguro che a breve possa essere garantita anche per pazienti adulti”, conclude l’esperta.
Seguici sui Social