Lorenzo si è ammalato di miastenia gravis, licenziato per i troppi mesi di malattia. Tribunale di Milano: “in caso di malattia cronica le assenze non possono essere computate ai fini del comporto”
Lorenzo viveva a Milano e da 33 anni lavorava nella stessa azienda. È stato licenziato per aver “sforato” il periodo di comporto: dopo la diagnosi di miastenia gravis , avvenuta in piena pandemia Covid, si è assentato troppo. Complice una pratica scorretta eseguita dal medico di base in buona fede i 180 giorni di malattia previsti dal suo CCNL sono stati superati e l’azienda – a detta del responsabile – non aveva altra scelta che licenziarlo. Lorenzo a sua volta non ha avuto altra scelta che ricorrere in giudizio, sperando di dimostrare la malafede del responsabile del personale. Ma il Tribunale di Milano ha fatto molto di più: ha sentenziato che “in caso di malattia cronica le assenze per motivi di salute non possono essere computate ai fini del comporto”, a prescindere dall’esistenza di certificazioni comprovanti handicap o invalidità civile. Un’ordinanza davvero significativa e una storia importante, che in questo articolo ricostruiamo dettagliatamente.
LA STORIA DI LORENZO: LA DIAGNOSI DI MIASTENIA E IL LICENZIAMENTO
Un contratto a tempo indeterminato, settore commercio. Lorenzo si occupava del front office, lavoro che ha sempre svolto con piacere. La sua vita però nel 2019 inizia a cambiare, con la comparsa di una serie di disturbi di salute: affaticamento generale, difficoltà di masticazione e deglutizione. “Inspiegabilmente la luce mi faceva abbassare le palpebre, mangiare era diventato difficile, così come lavorare – spiega – per questo ho temuto il peggio, pensavo di avere una malattia neurodegenerativa senza scampo. Il medico di base mi ha fatto eseguire una risonanza, pensando alla SLA o alla SM. Fortunatamente però gli esami sono risultati negativi, anche se io non stavo meglio.”
La diagnosi è arrivata circa un anno dopo, nel 2020. “È stata una neurologa ospedaliera a darmi la buona notizia, appena ha visto i miei esami e mi ha guardato in faccia ha capito che si trattava di miastenia gravis. La buona notizia è che la miastenia – pur essendo una patologia grave e potenzialmente molto disabilitante - si può curare e tenere sotto controllo. Dal momento in cui ho iniziato la terapia cortisonica mi sono sentito immediatamente meglio, però certo per riprendermi ci sarebbe voluto del tempo.”
Nel frattempo però siamo stati tutti travolti da una pandemia mondiale, a causa di un virus che mieteva vittime soprattutto tra le persone con patologie croniche già esistenti.
“Io rientravo a pieno titolo nella categoria “fragili” e quindi verso metà dicembre 2020 l’azienda ha deciso di mettermi in malattia precauzionale. Lavoravo all’accettazione, quindi a stretto contatto col pubblico e non esisteva la possibilità di smart working o di un cambio mansioni. Quindi in attesa della vaccinazione sono stato messo in malattia dal mio curante. Peraltro dovevo anche sottopormi all’intervento di timectomia, fissato per aprile. Purtroppo però non sono riuscito ad ottenere in tempo la vaccinazione, senza la quale non sarei entrato in ospedale. L’intervento è stato dunque rimandato, e io sono rimasto a casa. Nel frattempo avevo fatto domanda di invalidità civile, ottenendo una percentuale molto bassa. Sono stato poi licenziato a luglio 2021, per aver sforato il periodo di comporto, che per il CCNL commercio è di 180 giorni.”
Il medico di base aveva suggerito a Lorenzo la possibilità di prolungare il periodo di comporto usando la formula della “terapia salvavita”. Né il medico né Lorenzo erano però a conoscenza che questa possibilità fosse effettivamente prevista il alcuni CCLN, ma non in quello di Lorenzo.
“È evidente che ho sbagliato, che ho peccato di ignoranza, ma avendo comunicato esplicitamente questa cosa all’azienda, nella persona del legale rappresentante che è anche il responsabile del personale, mi sarei aspettato una segnalazione, una comunicazione. Se sapevano che questa modalità non era regolare, non era prevista dal contratto, potevano segnalarmelo, invece di tacere in malafede.”
L’azienda ha contattato Lorenzo il 6 luglio, avvertendolo di aver superato il periodo di comporto e che sarebbe stato licenziato, salva domanda di aspettativa non retribuita. “Ho presentato la domanda di aspettativa il 7 luglio, ma il giorno successivo sono stato licenziato. Mi sono ritrovato a 53 anni senza lavoro, affetto da una patologia grave e cronica, a 13 anni dalla pensione. Non potevo che rivolgermi a un legale, sperando di dimostrare l’ingiustizia di questo licenziamento.”
L’ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI MILANO: IL LICENZIAMENTO NON LEGITTIMO
Lorenzo e il suo legale si sono rivolti al Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, impugnando il licenziamento. Denunciando il carattere discriminatorio del recesso datoriale e quindi la sua nullità. Il ricorso è stato accolto, ma le motivazioni dell’ordinanza sono straordinarie.
“L’ordinanza ribadisce, secondo quanto stabilito dalla Direttiva 2000/78/CE prima e dalla Corte di Giustizia poi, alcuni principi comunitari di particolare rilevanza, che seppur spesso richiamati da diverse pronunce giurisprudenziali, non sono ancora riconosciuti ed integrati nella normativa nazionale. Nel 2019 – spiega l’avvocata Roberta Venturi, co-responsabile dello Sportello Legale “Dalla Parte dei Rari” - la Corte di Cassazione ha riconosciuto la malattia come disabilità, se duratura e incidente sull’integrazione socio -lavorativa di un soggetto; ancora nel 2016 il Tribunale di Milano ha riconosciuto la fattispecie di discriminazione indiretta nel caso di previsione per un lavoratore disabile e per un lavoratore non disabile, del medesimo periodo di comporto. Oggi questa ordinanza che sottolinea l’esigenza di interpretare la disciplina del periodo di comporto in una prospettiva di tutela e salvaguardia dei lavoratori che, portatori di disabilità, si trovano in una condizione di oggettivo e ineliminabile svantaggio. Un altro bellissimo esempio di giurisprudenza che spero possa essere riportato quanto prima in testo di legge”.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la pronuncia 18.01.2018, ha specificamente chiarito il divieto di discriminazione diretta e indiretta basata sull’handicap, in relazione alle condizioni di licenziamento. Ha affermato che la direttiva 2000/78/CE osta a una normativa nazionale che consente al fattore di lavoro di licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro, laddove tali assenze siano imputabili alla disabilità (tranne motivate eccezioni legate alla lotta all’assenteismo).
L’ordinanza riporta inoltre il chiarimento fornito dalla Corte di Giustizia sul concetto di handicap, che “va inteso come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali psichiche e che ostacola la partecipazione della persona alla vita professionale, su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori. […] Sotto un profilo di ordine generale, quindi, se deve escludersi che possa essere richiamato il divieto di discriminazione fondata sull’handicap non appena si manifesti una qualunque malattia, di handicap può (e deve) invece parlarsi ogniqualvolta la malattia sia di lunga durata, necessiti di cure ripetute e invalidanti, e/o abbia l’attitudine a incidere negativamente sulla vita professionale del lavoratore anche costringendolo a reiterate assenze (cfr. Tribunale di Milano, 12.6.2019).”
L’ordinanza ha di fatto stabilito una questione sostanziale: disabilità non significa certificazione di handicap o invalidità. Il documento esplicita infatti che “Alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un’effettiva minorazione fisica e, addirittura, indipendentemente dal riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione delle tutele di legge, anche perché assoggettare l’applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all’adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall’ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia."
L'AZIENDA CONDANNATA A REINTEGRAZIONE E RISARCIMENTO
L’azienda ha dovuto risarcire Lorenzo del danno subito, pagare gli stipendi e i contributi arretrati, provvedere alla reintegrazione nel posto di lavoro (ma Lorenzo ha scelto la liquidazione di 15 mensilità lavorative, non se l’è sentita di tornare in azienda) e sostenere le spese legali del ricorrente.
Lorenzo non è diventato ricco con questa ordinanza, ma ha ottenuto giustizia. Un passo avanti verso la considerazione della disabilità come condizione che va al di là di una certificazione, al di là della burocrazia. E della malattia cronica, quindi di lunga durata, se incidente sull’interazione socio-lavorativa, come disabilitante. Quindi un passo avanti verso la tutela della singola persona, del nostro diritto all’inclusione e alla partecipazione sociale in pari opportunità rispetto agli altri, a prescindere dall’etichetta.
Per saperne di più sulla miastenia gravis scarica gratuitamente la pubblicazione MIASTENIA, UNA MALATTIA CHE NON SI VEDE.
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