Sabina Zambon

La dr.ssa Sabina Zambon: “Oggi abbiamo le armi necessarie per ridurlo il più possibile, e sappiamo che maggiore è il calo, maggiore è la probabilità di evitare eventi cardiovascolari”

Padova – “The lower, the better”, più è basso, meglio è: negli ultimi anni è questo l'approccio rispetto alla gestione del colesterolo LDL (quello “cattivo”). La raccomandazione è contenuta nelle linee guida congiunte ESC/EAS (European Society of Cardiology e European Atherosclerosis Society) per la gestione delle dislipidemie, pubblicate nel 2019. È dunque consigliabile non fermarsi una volta raggiunto un livello ritenuto accettabile, ma è opportuno cercare di ridurli ulteriormente? L'abbiamo chiesto alla dr.ssa Sabina Zambon, internista presso la U.O.C. Clinica Medica 1 dell'Azienda Ospedaliera di Padova.

“Il colesterolo LDL si calcola con la formula di Friedewald: Colesterolo LDL (mg/dL) = Colesterolo totale − Colesterolo HDL − (Trigliceridi/5). Non esiste un concetto assoluto di normalità: i livelli consigliati dalle linee guida dipendono dal rischio cardiovascolare. In un soggetto senza fattori di rischio non si ha l'imperativo di raggiungere un livello particolarmente basso: è considerato normale un colesterolo LDL inferiore a 116 mg/dL, mentre per i pazienti con una forma genetica di ipercolesterolemia (ad esempio gli eterozigoti), ma senza eventi come infarto o ictus, è consigliabile restare sotto i 70 mg/dL”, spiega la dr.ssa Zambon. “Se invece parliamo di una persona che ha già avuto un evento di questo tipo, si scende sotto i 55 mg/dL, e se gli eventi cardiovascolari sono ripetuti, addirittura sotto i 40 mg/dL”.

L'obiettivo terapeutico, quindi, è molto basso, se si considera che nell'ipercolesterolemia eterozigote si possono raggiungere valori di colesterolo LDL che oscillano fra i 300 e i 500 mg/dL. “Ammettiamo di partire da 400 mg/dL. Il primo step è somministrare le statine (le più potenti sono l'atorvastatina e la rosuvastatina) alla massima dose tollerata: in questo modo dovrei riuscire ad abbassare i livelli di LDL fino al 50%, arrivando quindi a 200”, prosegue la dottoressa. “Il secondo step è l'ezetimibe, un farmaco che non ha gli effetti collaterali delle statine e abbassa l'LDL di un altro 15-20%. In questo caso potrebbe essere sufficiente, ma se si parte da livelli più alti, o se le statine e l'ezetimibe non forniscono la risposta sperata, è possibile utilizzare in aggiunta gli anticorpi monoclonali inibitori di PCSK9, che sono molto potenti – riducono l'LDL del 60% da soli e dell'85% in combinazione con gli altri farmaci – ma possono essere somministrati solo a determinati pazienti”.

La sfida contro il colesterolo diventa ancora più ardua nel caso dell'ipercolesterolemia familiare omozigote, la forma più rara, ma anche più grave, di ipercolesterolemia familiare. La dr.ssa Zambon ha in cura diversi pazienti con questa patologia, fra cui quattro bambini fra i 5 e gli 8 anni, con valori di LDL sopra gli 800 mg/dL. “Sia nel bambino che nell'adulto, l'obiettivo terapeutico è lo stesso: bisogna diminuire i livelli di LDL almeno del 50% per evitare eventi cardiovascolari”, sottolinea. “Spesso questi pazienti iniziano fin da bambini una terapia chiamata aferesi delle lipoproteine, una tecnica simile alla dialisi che prevede delle sedute anche settimanali, ma recentemente abbiamo a disposizione un'arma in più: la lomitapide”.

Si tratta di un farmaco orale (come le statine e l'ezetimibe, e al contrario degli anti-PCSK9 che si somministrano con delle iniezioni sottocutanee una volta ogni due settimane), quindi molto semplice da assumere: per ora può essere prescritto solo agli adulti, e solo agli omozigoti, abbinato a una dieta povera di grassi. “Solo alcuni omozigoti rispondono, e poco, agli inibitori di PCSK9: in questi casi si può aggiungere la lomitapide che, riducendo ulteriormente il colesterolo LDL, permette di prolungare il periodo fra una seduta di aferesi e l'altra, fino a una ogni due settimane, o addirittura una ogni tre, con grandi benefici per la qualità di vita. Ricordo il caso di una paziente che non voleva fare l'aferesi: siamo riusciti ugualmente a ridurre l'LDL, di 100 mg/dL con gli inibitori di PCSK9 e di altri 100 con la lomitapide”.

Quarant'anni fa, le persone con ipercolesterolemia familiare morivano da bambini a causa di infarti e ictus, mentre ora raggiungono l'età adulta. Una volta c'erano meno opzioni terapeutiche e ci si doveva accontentare dei livelli di LDL che era possibile raggiungere: ora, invece, sappiamo che più questi livelli si abbassano, più si ha la probabilità di rimandare il verificarsi di eventi cardiovascolari, e se questi eventi sono già avvenuti, bisogna far calare il più possibile il colesterolo LDL per evitare che ciò riaccada. “Non bisogna avere paura, perché abbiamo dei farmaci molto ben tollerati, e alcuni studi dicono che anche 10-20 mg/dL di LDL rappresentano un livello sicuro. Questo calo, fra l'altro, ha un effetto positivo anche per un'altra condizione, l'iperlipoproteinemia(a), per la quale non ci sono farmaci diretti”, conclude la dr.ssa Zambon. “Certo, una diminuzione simile è possibile nella forma eterozigote, mentre in quella omozigote è ben più complessa: dipende sempre dal fenotipo del paziente, al quale la terapia si deve adattare”.

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