Il racconto del giovane rumeno: “Dopo 7 anni senza terapia, in Italia ho iniziato a fare la plasmaferesi e, grazie alla lomitapide, ho potuto dimezzarne la frequenza”
Roma – Andrei ha 7 anni, quando in seguito a un controllo di routine scopre di avere il colesterolo totale a livelli spaventosamente alti, 1.100 mg/dL. È l'effetto di una malattia genetica silenziosa, che agisce molto in fretta e, se non trattata tempestivamente, può arrecare danni gravi e irreversibili: l'ipercolesterolemia familiare in forma omozigote. Il bambino non ha alcun sintomo che possa far sospettare la malattia: l'unico segno visibile sono gli xantomi, simili a dei nei di colore giallo/arancione sui gomiti, sulle ginocchia e sui tendini d'Achille, ma compaiono solo dopo gli 8 anni, quando la patologia è già stata individuata casualmente.
Siamo in Romania, alla fine degli anni '90: dal momento della diagnosi, Andrei vive per ben sette anni senza seguire una terapia appropriata, e con i suoi livelli di colesterolo (l'LDL intorno alle 1.000 unità e l'HDL sempre molto basso, di solito meno di 30) questo significa essere costantemente ad alto rischio di eventi cardiovascolari come l'infarto o l'ictus. “I miei genitori mi portarono da coloro che in teoria erano i massimi esperti in malattie metaboliche, i quali ci dissero che non esistevano cure, neanche all'estero”, ricorda Andrei.
“Andavo mensilmente a fare i prelievi di sangue, e ogni volta mia madre pregava il primario di informarsi e di chiedere un parere ai colleghi che incontrava ai congressi internazionali ai quali partecipava. Quando avevo 12 anni, un medico ci parlò di una cura utilizzata all'estero, con la quale il sangue viene filtrato dai grassi, ma il primario ci disse che questo trattamento – la plasmaferesi – non avrebbe risolto il problema perché “sarebbe stato come versare dell'acqua pulita in una vasca da bagno sporca”. Solo in seguito abbiamo capito che era interesse dello Stato nascondere l'esistenza di questi trattamenti perché molto costosi, quindi non sostenibili dal nostro sistema sanitario”, prosegue il giovane.
“All'epoca i medici mi dissero che ero troppo piccolo per i farmaci: erano disponibili le statine ma non si conoscevano gli effetti collaterali sui minori e perciò non me le hanno prescritte fino all'età di 12 anni. Almeno, questa è la versione che ci hanno raccontato. In mancanza di cure specifiche, dai 7 ai 14 anni i miei genitori mi hanno fatto provare ogni tipo di cura alternativa, naturista e omeopatica, ma trattandosi di una malattia genetica nulla ha funzionato: all'età di 14 anni avevo già le coronarie occluse all'80%”, spiega Andrei.
La prima svolta è nel 2004, quando il ragazzo arriva in Italia, dove al Policlinico Umberto I di Roma subisce un complicato intervento di triplo bypass coronarico e trombendarteriectomia carotide sinistra, una procedura per la riapertura chirurgica dei vasi sanguigni ostruiti e l'asportazione delle placche arteriosclerotiche. Da quel momento, per 10 anni, inizia a fare la plasmaferesi settimanalmente, con valori di colesterolo totale che si aggirano intorno ai 250-300 mg/dL, e con HDL non più alto di 30.
“Sono arrivato in Italia grazie alla bontà del signor Pierangelo Casa, un imprenditore di Pavia che ha contattato la prof.ssa Claudia Stefanutti e l'ha pregata di accogliermi nel suo centro presso l'Umberto I a Roma, per iniziare le cure di cui avevo tanto bisogno”, continua Andrei. “Lui è stato il mio angelo, e ora che non c'è più è diventato un vero angelo nel cielo. Ricordarlo è un modo per esprimere la mia gratitudine, perché sento che non sarò mai in grado di ripagare le persone attraverso le quali Dio mi ha salvato la vita”.
La seconda svolta avviene nel 2015, quando inizia la cura con il farmaco lomitapide, una piccola molecola che viene somministrata per via orale una volta al giorno. Grazie a questo trattamento, Andrei, dopo un anno, ha potuto dimezzare la frequenza della plasmaferesi, da una volta alla settimana a una ogni 15 giorni.
Oggi Andrei ha 29 anni, assume 20 mg di lomitapide al giorno e i suoi valori di colesterolo totale si aggirano intorno ai 120-180 mg/dL, con l'HDL che è aumentato a 50. “Ho cominciato a notare la differenza già quando ho iniziato a prenderne 15 mg. Si sono presentati anche alcuni effetti collaterali come stanchezza, nausea e diarrea, ma con il passare del tempo sono diminuiti di intensità: li sperimento tuttora ma in maniera più blanda, e dipendono anche dagli alimenti che assumo”, sottolinea.
“È stato un grande miglioramento fisico ma soprattutto psicologico, perché passare dopo dieci anni dal trattamento aferetico settimanale a quello quindicinale ha rappresentato un cambiamento rivoluzionario. Non solo le mie vene hanno più tempo per guarire, ma io ho più tempo da dedicare al lavoro e alle mie passioni, senza dover pensare al fatto che un giorno alla settimana ho l'appuntamento fisso con l'ospedale. Per me già trovare una cura che mi ha salvato la vita rappresenta un miracolo per il quale ringrazio Dio e i medici che mi hanno accolto qui in Italia”, conclude Andrei. “Il fatto di dover fare la plasmaferesi con una minore frequenza può sembrare solo un bonus, tuttavia è un bonus che ha migliorato la mia qualità di vita sotto tutti i punti di vista”.
Ma negli ultimi mesi, specialmente nella fase acuta del contagio da COVID-19, gli ospedali hanno continuato a garantire il trattamento ai pazienti affetti da questa patologia? L'abbiamo chiesto a Domenico Della Gatta, presidente dell'Associazione Nazionale Ipercolesterolemia Familiare (ANIF). “Il primo pensiero va a chi in questi anni dedica la sua vita alla ricerca, nella certezza assoluta che più ricerca si fa in questo Paese e prima si raggiungeranno obiettivi importanti, impensabili dalla medicina di un tempo”, ha commentato Della Gatta. “Negli ospedali dove tradizionalmente ognuno di noi si rivolgeva per il proprio trattamento sono proseguite le cure e le terapie richieste e necessarie. In particolare, mi soffermo sul Policlinico Umberto I di Roma, dove tutto si è svolto (e si svolge) nella migliore delle tradizioni cliniche della struttura. Nessun giorno di fermo, nessuna carenza del trattamento plasmaferetico (presso il Reparto diretto dalla prof.ssa Claudia Stefanutti): la sola novità riflessa dalla crisi del COVID-19 è semmai un calo sensibile dei nostri pazienti periodici (settimanali o quindicinali), che per i motivi più svariati non si presentano nella citata struttura ospedaliera per la cura”, prosegue Della Gatta.
“Da sottolineare che gran parte dei nostri ammalati fa corrente uso di mezzi pubblici e le limitazioni imposte dal Governo hanno pesato in maniera negativa sulla loro vita quotidiana. Molti altri, invece, sono vittime inconsapevoli della psicosi della pandemia, per cui di fronte ad un rischio reale di prendere un’infezione in ospedale o in metropolitana, alla fine preferiscono rinunciare alla seduta programmata di terapia. E tutto questo nonostante siano perfettamente consapevoli che la mancanza di un trattamento terapeutico adeguato può comportare per ognuno di loro controindicazioni devastanti e irreversibili”, conclude il presidente di ANIF. “L’auspicio finale, dunque, sarebbe poter immaginare – da qui in futuro – il coinvolgimento strutturale e organico anche delle Unità che in ospedale tradizionalmente si occupano di assistenza psicologica ai pazienti, affinché diano loro il necessario supporto anche al fine che questi possano ritrovare la strada della fiducia e possano riscoprire una diversa speranza per il proprio futuro”.
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