Prof. Luigi Daniele Notarangelo - Immunodeficienza combinata grave

Una diagnosi precoce della malattia permette ai bambini di sottoporsi tempestivamente al trapianto di cellule staminali

Bethesda (USA) – La sopravvivenza dei pazienti affetti da immunodeficienze combinate gravi è in crescita, e il merito è dello screening neonatale: è questo il messaggio più importante che giunge dalle pagine di Lancet. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori americani guidati dall'italiano Luigi Daniele Notarangelo, a capo del Laboratorio di Immunologia Clinica e Microbiologia dei National Institutes of Health di Bethesda e già professore ordinario di Pediatria all'Università di Brescia.

Le immunodeficienze combinate gravi (SCID) sono delle malattie genetiche fatali, a meno che non venga stabilita un'immunità adattativa duratura; questa risposta, chiamata anche immunità specifica o acquisita, rappresenta il sistema attraverso cui un organismo si difende in modo mirato dalla presenza di agenti che gli sono estranei. Nei pazienti affetti da SCID il sistema immunitario perde, totalmente o in parte, la sua funzionalità, e per acquisirla nuovamente si deve ricorrere a un trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche.

I dati sui quali si sono concentrati gli studiosi sono quelli del Primary Immune Deficiency Treatment Consortium (PIDTC), un organismo composto da 47 centri clinici nel Nord America, il cui obiettivo comune è migliorare la prognosi dei pazienti affetti da disturbi ereditari del sistema immunitario, rari e potenzialmente letali. Il consorzio ha esplorato i fattori che influenzano la sopravvivenza degli individui con SCID nel corso di quasi quattro decenni, concentrandosi sugli effetti dello screening neonatale per la SCID su base di popolazione, avviato nel 2008 e ampliato nel corso degli anni 2010-2018.

Il Consorzio ha analizzato i dati relativi al trapianto di bambini con SCID trattati in 34 siti PIDTC negli Stati Uniti e in Canada, utilizzando gli intervalli temporali 1982-89, 1990-99, 2000-09 e 2010-18. L'analisi ha esaminato i tanti fattori di rischio che condizionano gli esiti del trapianto: l'elemento che ha portato alla diagnosi, il tipo e il genotipo di SCID, la razza e l'etnia del paziente, l'età e lo stato infettivo, il tipo di donatore, il tipo di intervento e le relative tempistiche, la profilassi per la malattia del trapianto contro l'ospite (GVHD) e l'intensità del regime di condizionamento.

Per 902 bambini con SCID confermata, la sopravvivenza globale a 5 anni è rimasta invariata al 72%-73% per 28 anni fino al periodo 2010-18, quando è aumentata all'87%. In particolare, per i bimbi identificati tramite screening neonatale a partire dal 2010, la sopravvivenza a 5 anni è stata del 92,5%, migliore di quella dei bambini identificati per malattia clinica o storia familiare nello stesso intervallo (rispettivamente 79,9 e 85,4%).

Secondo gli studiosi, alcuni fattori risultano associati a una sopravvivenza globale inferiore in tutti gli intervalli di tempo: l'infezione attiva, l'età pari o superiore a 3,5 mesi al momento del trapianto, la razza nera o afroamericana e alcuni genotipi di SCID. Inoltre, dopo il 2010 il trapianto non ha più fornito un vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto agli intervalli di tempo precedenti.

Ciò ha indicato che l’età più giovane e l’assenza di infezioni al momento del trapianto, entrambe direttamente connesse allo screening neonatale, sono i principali fattori che hanno determinato il recente miglioramento della sopravvivenza globale. Lo screening neonatale basato sulla popolazione, infatti, ha facilitato l'identificazione dei neonati con SCID nelle prime fasi della vita, portandoli tempestivamente al trapianto ed evitando l'insorgere di infezioni. Ora – si augurano i ricercatori – i programmi di sanità pubblica in tutto il mondo potranno trarre vantaggio da questa dimostrazione definitiva del valore dello screening neonatale per la SCID.

 

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