Le opportunità offerte dai nuovi farmaci, il problema degli inibitori e quello della compliance: l'intervista al prof. Giancarlo Castaman (Firenze)
Firenze – Due anni fa, all'Osservatorio Malattie Rare, il prof. Giancarlo Castaman ha spiegato come la comparsa di anticorpi inibitori rappresenti una delle sfide ancora aperte nella terapia dell’emofilia. Possiamo dire che è ancora così, ma qualcosa sta cambiando: il trattamento della malattia, infatti, è in costante evoluzione. Di questo e di altri aspetti si è parlato nel corso dell'importante evento “Emofilia, la certezza della cura – Terapia sostitutiva, personalizzazione, accesso”, realizzato dall'azienda biofarmaceutica italiana Kedrion e svoltosi il 27 e 28 giugno a Trieste.
Castaman, Direttore del Centro Malattie Emorragiche e della Coagulazione dell'AOU Careggi di Firenze, ha organizzato l'incontro in qualità di responsabile scientifico, insieme alla dr.ssa Elena Santagostino, presidente dell'Associazione Italiana Centri Emofilia (AICE).
Professor Castaman, nel corso del convegno si è parlato dell'accesso alle cure per il paziente emofilico: quali sono i principali problemi relativi a questo tema?
“Il sistema sanitario italiano è regionalizzato, e questo comporta un'ampia eterogeneità nelle tempistiche e modalità di accesso ai nuovi farmaci: si tratta spesso di un problema di natura essenzialmente burocratica, comune a tante altre patologie rare. La situazione, tuttavia, è molto varia: ad esempio, in Toscana c'è l'ESTAR, l'Ente di Supporto Tecnico-Amministrativo Regionale, che ha il compito di snellire queste pratiche. I pazienti, di conseguenza, cercano di spostarsi nelle Regioni più virtuose. A livello mondiale permane ancora una forte disomogeneità di accesso ai farmaci, con aspetti di criticità nei Paesi in via di sviluppo, che spesso devono giovarsi di donazioni di prodotto, anche da parte di Regioni italiane, oltre che delle stesse aziende farmaceutiche”.
Si sta andando sempre più verso una personalizzazione della terapia: quali vantaggi ha, per il paziente e per il medico?
“Il vantaggio è poter disegnare un vestito su misura per la condizione specifica di ogni paziente. Oggi, grazie anche agli studi di farmacocinetica, è possibile comprendere la durata del Fattore di coagulazione infuso in circolo, che può variare in maniera importante da paziente a paziente. Queste informazioni sono utilissime per non eccedere nelle dosi e quindi per evitare gli sprechi, oppure per somministrare una dose di Fattore maggiore o più ravvicinata nel tempo a chi ha una risposta più difficile al trattamento”.
Anche il ruolo del paziente sta cambiando: negli ultimi anni la tendenza è quella di renderlo sempre più autonomo, con l'auto-somministrazione e le infusioni a domicilio. Sono scelte che comportano solo vantaggi o anche qualche criticità?
“In realtà l'autoinfusione era già praticata trenta o quarant'anni fa, per trattare tempestivamente a domicilio le emorragie ed evitare i rischi che il paziente avrebbe corso facendo trascorrere troppo tempo nel tragitto da casa all'ospedale. Oggi l'obiettivo dell'auto-somministrazione non è più la cura ma la prevenzione: le infusioni a domicilio hanno il fine di potenziare la profilassi, migliorando il benessere e l'autonomia del paziente. È un vantaggio notevole, ma non bisogna dimenticare che il trattamento domiciliare non può sostituire le visite al Centro Emofilia, che dev'essere sempre frequentato con costanza. Anche se una persona ha solo un sanguinamento l'anno, deve ricordarsi che è affetta da una patologia potenzialmente a rischio di vita o debilitante nel tempo, che può produrre delle complicanze: non va quindi trascurato il monitoraggio del medico esperto. In genere è raccomandata una visita al Centro di riferimento ogni 3-6 mesi”.
La scarsa compliance del paziente rappresenta ancora un problema? In che modo è possibile migliorare la comunicazione e la collaborazione fra medico e paziente emofilico?
“La fase più critica è senza dubbio quella tardo-adolescenziale, quando il ragazzo passa dal controllo della terapia da parte dei genitori all'autonomia. È un periodo di ribellione e di scarsa percezione del rischio emorragico. Oggi i ragazzi sono in profilassi sin dalla più tenera età, quindi possono non rendersi conto dei pericoli ai quali andrebbero incontro abbandonandola, dai danni alle articolazioni alle conseguenze in altri organi. È compito del medico spiegare bene quali sono questi rischi: ci vuole tempo, calma e dedizione. In genere seguiamo questi pazienti fin dalla nascita, quindi dovremmo essere capaci di percepire e affrontare il loro disagio, soprattutto in questa fase delicata”.
Con l'arrivo di tanti nuovi farmaci, come cambierà il trattamento dell'emofilia? La somministrazione dei fattori VIII e IX manterrà il suo ruolo attuale, verrà sostituita dall'utilizzo dei farmaci o le due soluzioni potranno coesistere, a seconda dei casi?
“Ci troviamo in una fase di transizione, e gli stessi addetti ai lavori non sono in grado di immaginare quale sarà il futuro nel trattamento dell'emofilia. Ad esempio, oggi il gold standard per i pazienti con emofilia A e inibitori resistenti all'immunotolleranza è dato dalla profilassi con emicizumab, ma già dall'inizio dell'anno prossimo questo farmaco ad uso sottocutaneo potrà essere utilizzato anche nei pazienti con emofilia A senza inibitori, con una frequenza che potrà arrivare a una sola infusione ogni 15-30 giorni. I nuovi medicinali hanno una grande attrattiva per la loro facilità di somministrazione e la lunga durata fra un trattamento e l'altro, e rappresentano un'arma in più, ma non sappiamo ancora quale sarà il loro ruolo definitivo nel tempo. Con queste nuove molecole, il rischio emorragico subisce una marcatissima riduzione, ma può permanere, soprattutto in caso di eventi traumatici significativi. Credo perciò che l'utilizzo dei fattori di coagulazione non verrà dismesso, ma piuttosto riservato a queste situazioni o alla gestione degli interventi chirurgici. Inoltre, nei nuovi nati o nei protocolli di immunotolleranza, rimangono attualmente insostituibili”.
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